Umami (u·mà·mi/sostantivo maschile) In fisiologia della nutrizione, si dice della particolare sensazione gustativa («gradevolezza al palato») indotta dal glutammato monosodico, o monosodioglutammato (MSG), impiegato dall’industria alimentare come insaporente o esaltatore dei sapori, soprattutto nella preparazione dei dadi da brodo e prodotti similari. Il termine è entrato a far parte, già dagli anni 1990, del lessico proprio della fisiologia della nutrizione: il sapore u. è stato affiancato ai quattro sapori fondamentali (dolce, amaro, acido, salato).
Enciclopedia Treccani
Umami è il quinto sapore, una specie di sesto senso gustativo che stuzzica le papille e stimola l’appetito. Umami è anche il titolo del romanzo d’esordio di Laia Jufresa, uscito nel 2017 per Edizioni SUR.
Il libro segue le vicende dei nuclei familiari che abitano nel comprensorio di Villa Campanario, le cui case portano i nomi dei differenti sapori: acido, amaro, dolce, salato e umami. Ogni famiglia ha una storia che l’ha portata lì e che si dipana, in un gioco di scalini a ritroso, per tutto il testo.
La vera particolarità, tuttavia, l’umami di questo libro è la privazione: tutti hanno perso qualcosa, a volte di concreto, a volte di inafferrabile. La mancanza è il principio primo che muove la trama, “un disumami“, viene definito dalla defunta Noelia, la cui voce viene più volte rievocata dalla narrazione del vedovo. E qui, torna alla mente un sapore indefinito dell’infanzia, quel cibo – alle volte banale, ma non replicabile – che alberga più nella memoria che nello stomaco; un gusto altro, diverso, inconsistente e presente al tempo stesso, la cui mancanza avvertiremo per il resto della vita e che rievocheremo, con nostalgia, durante conversazioni malinconiche della nostra esistenza di adulti, per poi non pensarci finché un nuovo stimolo olfattivo, visivo, uditivo o tattile, non stuzzicherà di nuovo il nostro senso del gusto e scatenerà la marea splenica.
I personaggi sono tutti preda di questo senso della privazione, della nostalgia; tutti impegnati – dalla piccola Ana all’anziano Alfonso Semitiel, dall’abbandonata Pina alla fuggitiva Marina – a sfuggire alla manchevolezza e a riempire il vuoto come possono, a ricercare il loro umami.
Umami: affrontare la privazione con la ricerca di senso
L’umami inizia in bocca. Inizia al centro della lingua, si attiva la salivazione. Si risvegliano i molari, vogliono mordere, hanno bisogno di movimento (…).
Mordere è un piacere, e l’umami è la qualità di ciò che è mordibile.
La ricerca dell’umami diviene un viaggio filosofico, una ricerca di senso alla vita, non dissimile da quello affrontato da qualsiasi persona nel corso della propria esistenza. E ciascuno affronta questo viaggio ponendosi un obiettivo: Ana, soprannominata Agatha Christie e abitante della Casa Salato, decide di coltivare una milpa; Marina, pittrice con disturbi alimentari, residente di Casa Amaro, inventa colori; Pina, di Casa Acido, vive un’infantile inquietudine in attesa del ritorno della madre; Alfonso Semitiel, proprietario del comprensorio e abitante di Casa Umami, affronta il lutto attraverso la scrittura. Solo Casa Dolce non è abitata, almeno all’inizio, ma è sede di un’Accademia di Musica, perché il dolce, nella vita, è un sapore che va custodito nel cuore, come le melodie che da essa si dipartono.
In un’alternanza di stili narrativi (diario, narrazione in prima persona, narratore in terza…) e di voci che emergono da questo primo romanzo, Laia Jufresa porta alla luce la confusione e le difficoltà del quotidiano e miscela, in un giocoforza di linee temporali, ogni volta un nuovo gusto letterario, fino a porre un termine alla ricerca del senso attraverso le parole di Semitiel:
Forse bisogna arrivare alla mia età per far calare il velo e contemplare le incongruenze delle cose per cui siamo stati ossessionati, i buchi in cui abbiamo riversato le nostre energie e prendere un po’ le misure: larghezza per assurdità. Però bisogna riderci su. In questa vita bisogna ridere di tutto.
Giulia Manzi
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