“Ogni giorno è buono per ammazzare nazisti”: un incipit sintetico che introduce subito al tema dell’opera prima di Francesca Tacchi, Seppellitemi lassù in montagna, con cui ha esordito in America e che è stata portata in Italia da Zona42. E dal titolo e dall’incipit, è facile intuire quanto questa storia appartenga all’Italia stessa, per la precisione al periodo della Resistenza.
Seppellitemi lassù in montagna: l’anfisbena
Con un ritmo incalzante e una scrittura secca ma non per questo meno evocativa, Francesca Tacchi guida in un viaggio tra elementi queer, mitologia etrusca, e tradizioni della penisola, come la festa dei serpari. La lotta partigiana si intreccia a sfumature fantastiche e al folklore locale, troppo spesso trascurato e dimenticato nella sua complessità e ricchezza.
Nella storia, abbiamo il partigiano Veleno, che col compagno Rame e altre due partigiane viene mandato per le montagne sulla linea Gustav per recuperare una strana arma che i nazisti vogliono usare contro gli Alleati nella battaglia di Montecassino. Veleno è protetto dalla dea etrusca Angizia, divinità dei serpenti e della guarigione, ma non sembra intenzionato a uscire vivo dallo scontro.
Questa duplicità tra bene/male, morte/guarigione, odio/amore è il traino della novella. In Seppellitemi lassù in montagna tutto appare bifronte, perfino il nemico – bianco, insondabile, gelido, più simile al motore immobile divino che alla divinità pagana a cui Veleno si affida e che distribuisce cure, ma anche spaventose visioni -, perfino gli alleati, verso cui viene fatta una sottile, ma affilata, critica. Il nome stesso di Veleno ha una natura duplice: pharmakon, veleno e medicina. Distributore di morte e di vita, a seconda del sentimento che lo smuove.
In pratica, Seppellitemi lassù in montagna richiama all’anfisbena, il serpente che gli antichi ritenevano avesse due teste, simbolo della vittoria del Bene sul Male. E, in un luogo dove la forte cristianizzazione ha portato spesso il serpente a essere considerato simbolo del male e della tentazione, questo richiamo al suo dualismo e il porlo come emblema di cura, preoccupazione, trionfo del positivo, è allo stesso tempo un recupero delle radici pagane dell’Italia e un tratto grigio, a evidenziare come le cose non sono mai come sembrano.
Difatti, non è Angizia, la divinità dei serpenti, a portare la morte ai nazisti, bensì l’uomo: Veleno cura col potere della dea, ma è del tutto umano quando uccide, mosso da un desiderio di vendetta che, per quanto giusta, trova sfogo nella violenza a ogni costo, nel martirio se possibile.
Tuttavia, questa dualità finisce con lo sciogliersi risolutivamente nel finale, quando Veleno può – deve – scegliere se morire da eroe, o continuare a vivere. Ed è qui che nasce il vero coraggio partigiano.
Seppellitemi lassù in montagna sarà pure una novella tanto – troppo – breve, ma è in grado di condurre in atmosfere perdute chiunque si accingerà a leggerla, accompagnato dai canti che risuonano, ancora oggi, tra le cime d’Italia.
Giulia Manzi
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