Zerocalcare non ha certo bisogno di presentazioni: i suoi fumetti, editi da Bao, sono ormai un fenomeno internazionale, grazie anche all’avvento su Netflix delle due serie: Strappare lungo i bordi e Questo mondo non mi renderà cattivo. L’artista romano, tuttavia, ha esordito con un’autopubblicazione, poi ristampata dalla sua storica casa editrice a colori (colori 8-bit, appunto): La profezia dell’armadillo, in cui compaiono già in germe alcuni dei suoi celebri personaggi: l’alter Ego dell’autore, Secco, Cinghiale, il Mammut di Rebibbia (e chi abita a Rebibbia sa che c’è un Mammut, là sotto), la mamma rappresentata (per privacy) come Lady Cocca e l’Armadillo, coscienza e guida spirituale (spesso fallace) del protagonista,
L’Armadillo è anche l’autore della profezia da cui il titolo, ovvero:
Si chiama profezia dell’armadillo qualsiasi previsione ottimistica fondata su elementi soggettivi e irrazionali spacciati per logici e oggettivi, destinata ad alimentare delusione, frustrazione e rimpianti, nei secoli dei secoli.
Amen.
La profezia dell’armadillo: quando la vita scombina carte già mischiate male
Se la vita ti dà limoni, tu fai una limonata. Sorridi al futuro. Pensa positivo. Hai il mondo tra le mani, e un mucchio di altre simpatiche frasi a cui un’intera generazione è stata sottoposta nel culto del benessere, della realizzazione del sé, della performance a ogni costo. E chi è cresciuto negli anni ’90, non può fare a meno, sin dalle prime pagine de La profezia dell’armadillo, di sentirsi a casa. Non dico completamente a posto, ma perlomeno compreso nel complesso gomitolo di disagi, fobie e discrepanze da ciò che è sempre stato considerato “normale” che caratterizza i Millennial.
In questo agglomerato di possibilità perdute, c’è un elemento con cui diventa quasi impossibile interfacciarsi: la morte. Una generazione intera non è addestrata ad affrontare il nulla, la perdita. La mancanza. Forse perché, nati nell’abbondanza, ci si è trovati davanti a un buco nero di assenze e la morte si è solo miscelata con esse, creando un altro movimento destabilizzante, un soffio sulla precarietà dell’equilibrista. E una caduta. Senza fondo.
Questo avviene proprio all’inizio de La profezia dell’armadillo: a Zero viene annunciata la morte di una vecchia compagna di scuola, nonché prima cotta adolescenziale, Camille. Questo scatena una serie di frammentazioni della persona, di pensieri disgreganti di fronte a un evento impossibile da affrontare con lucidità. A quel punto, la mente divaga – e anche la storia – in una serie di episodi quotidiani, intermezzati dalla non-elaborazione del lutto.
Tale peso e tale impossibilità di comprensione di un’assenza ormai definitiva – per chi è abituato a lasciarsi scorrere la vita addosso invece di deviarla – si condensa attorno al nucleo del rimpianto: un orologio che ticchetta, ticchetta, e segna non il momento giusto per compiere un’azione, bensì la fine del tempo a disposizione. Ed è la gravità delle occasioni perse a pesare come una balena (o come un’orca, che sono più oggetti di design) sulle schiene di un’intera generazione che, dalla vita, cercava solo leggerezza.
Anche se, ‘sta leggerezza chi l’ha mai vista?
Giulia Manzi
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