Noah prese di nuovo fiato dal respiratore e cominciò. “C’erano…”

Una favola sulle favole incompiute. Niente di umano, di Beatrice La Tella (Moscabianca Edizioni) è proprio questo: una novella – strana bestia letteraria che occupa il confine tra romanzo e racconto – sulle storie rimaste in sospeso, quelle mai finite di leggere o di raccontare.

Comincia tutto proprio da una storia, da un “c’era una volta” troncato, come la vita di chi, quelle favole, le ha sempre raccontate. E allora, quando la voce narrante ammutolisce, all’ascoltatore cosa rimane da fare se non cercare un finale? Una conclusione appagante e consolatoria?

Niente di umano: una favola weird

Nina ricorda bene il momento in cui si è aperto lo Squarcio: era al funerale di Noah. Da quel momento, la sua vita e quella di tutti gli esseri umani hanno cominciato a essere popolate da strane creature. Qual è la vera natura delle Bestie apparse sopra le città? Perché sembrano inavvicinabili? Ma la domanda più importante per Nina è un’altra: Noah è davvero scomparso? Insieme a Levi, che su un blocco da disegno ritrae con devozione ogni avvistamento, Nina raccoglie appunti e traccia indizi riguardo il mistero delle Bestie, in una Terra invasa da un nuovo misticismo.

Documenti cerchiati in rosso, note, appunti, volantini stracciati… questo compone il bagaglio di Nina, il pesante faldone che l’accompagna sempre, da quando le favole si sono interrotte. Una ricerca ossessiva, conturbante, sulla natura delle Bestie che paiono essersi proiettate direttamente fuori dall’immaginazione. Animali fantastici, chimerici, apparsi in mezzo a un’umanità impegnata, all’improvviso, nel tentativo di attribuire un nome alle loro fisionomie e un ruolo ai loro silenzi.

Di fronte a questa non-accettazione della travalicazione della realtà operata dalle Bestie, appare chiara una cosa: il Velo di Maya è crollato. L’evento noto come “Squarcio” ha creato un portale tra il mondo dell’immaginario e quello materico. E forse, è proprio questo a confondere gli uomini: la consapevolezza inconscia che le fiabe sono reali; che le favole non hanno un vero finale, ma evolvono nel tempo e nello spazio.

Lungo un percorso costellato di conflitti, nella più nota – eppure sovvertita da una visione obliqua della stessa da parte dell’autrice – tradizione favolistica occidentale, Niente di umano costringe il lettore a riflettere su quale sia il vero confine tra i sogni e la realtà e, soprattutto, quanto l’immaginazione si fa chiave interpretativa di questa. I paratesti di Nina – logica, analitica e coercitiva del fenomeno – si interrogano sulle discrepanze del mondo, sulle pieghe nuove mostrate all’universo. Ad essi si contrappongono i disegni di Levi – illustrati dalla bravissima Brigitta Bonaldo -, unico ad accogliere le Bestie con un vero e genuino “atto di fede”. Ne accetta l’esistenza, in quanto il loro avvento gli ha restituito la vista, e attraverso il suo ritrarle, travalica lui stesso lo Squarcio, si immerge nell’immaginario e, attraverso questo, ritorna una volta per tutte al mondo.

Il senso della nostalgia e la ricerca di senso

Si risveglia, in Niente di umano, il doppio senso del Fernweh e dello Heimweh: la “nostalgia della lontananza” e la “nostalgia di casa”. Un ossimoro in cui i protagonisti si trovano a vivere e proseguire la loro ricerca: Nina cerca di stabilizzarsi nell’Heimweh, nel desiderio di recuperare la situazione antecedente all’apparizione delle Bestie o, perlomeno, ciò che lei considera “casa”. Per ottenere questo, però, è costretta a proiettarsi nel Fernweh, nell’abbandono delle circostanze conosciuti per aprirsi all’esterno.

Similmente, Levi è un elemento del Fernweh: è pronto ad accogliere il nuovo, l’inconoscibile, con una spontaneità che non appartiene alla sua coprotagonista. Tuttavia, il suo percorso nell’accoglienza lo porta a identificare, nella persona di Nina, un proprio “luogo dove tornare”, un posto che, se venisse a mancare o si allontanasse, risveglierebbe in lui l’Heimweh.

Immersi in un dittico alternante tra i due capi opposti della nostalgia, Levi e Nina interscambiano e intrecciano le loro storie personali, con la bramosia di chi cerca un finale (Nina) e chi sceglie di godersi il viaggio (Levi).

Entrambe le pulsioni, però, portano allo stesso interrogativo: “C’è un messaggio?” si chiede Nina, di fronte all’etimologia di mostro. Ed è questo il grande mistero che dischiude alla necessità di trovare un senso nel mondo e al mondo. Sette, esoterismi post-apocalittici in un’Apocalisse che non è distruttiva, ma sovvertitrice del mondo conosciuto, disegni, appunti… tutto proietta a quest’unico interrogativo: “C’è un messaggio?“, esiste un senso?

E il senso, Niente di umano, lo trova: il senso sono le storie interrotte, le vite che le hanno raccontate. Le Bestie sono un ammonimento al lasciarsi andare, a perdere, spontaneamente, il contatto con la realtà per rifugiarsi in sogni tanto più veri quanto più sono distanti dal conoscibile. Perché solo tramite essi ci viene restituito il mondo.

Se c’è un messaggio, se esiste un senso, è questo: ogni vita è una favola interrotta e, quando un narratore lascia il palco, un altro calza la scena e prosegue la narrazione verso un finale irraggiungibile.

Giulia Manzi