Meno di zero (Less than Zero) è il primo romanzo dello scrittore americano Bret Easton Ellis, risalente al 1985, quando l’autore aveva solo 21 anni e frequentava ancora il college. In questo esordio scritto in giovane età, si possono già cogliere tutte le tematiche che verranno in seguito impiegate nel suo romanzo più famoso: American Psycho.

La narrazione, in prima persona, segue le vicende di Clay, un ricco studente universitario di ritorno a Los Angeles per le vacanze estive.

Non si può dire che il punto focale del romanzo sia una trama vera e propria, nel senso di un susseguirsi di avvenimenti collegati fra loro in rapporti di causa-effetto. La funzione dell’intreccio è svolta dagli sforzi del protagonista di tornare in contatto con il suo vecchio amico Julian, che sembra nei guai per faccende di droga e di soldi, e che fa di tutto per eluderlo.

Meno di zero: il lato oscuro del capitalismo

Il vero cuore di Meno di Zero, in realtà, è il suo essere uno spaccato della vita da ricco e giovane abitante di Los Angeles (L.A. per gli amici) negli anni Ottanta: una vita da ragazzo privilegiato e perennemente tediato, in perenne ricerca del brivido. Pure in mezzo a Porsche da centinaia di migliaia di dollari, ville e nuotate in piscina, fiumi di champagne, nevicate di cocaina, conoscenti morti di overdose e compagni di scuola eroinomani, feste di produttori cinematografici e incontri (anche di natura sessuale) con attori e modelli famosi, la narrazione procede in un monotono ripetersi sempre degli stessi avvenimenti.

Giri infiniti in macchina, visite ad amici strafatti o ubriachi, risvegli a casa di sconosciuti, sesso occasionale e feste tediose, ubriacature, pettegolezzi privi di interesse (anche da parte di chi li condivide), pranzi piluccati a malapena in ristoranti costosi… rinse, repeat dicono gli inglesi: e poi si ricomincia da capo.

Il denaro può comprare qualunque cosa, così è detto anche dai personaggi, ma la costante disponibilità di denaro porta con sé l’effetto collaterale della noia incipiente. Un gruppo di personaggi vortica attorno al protagonista, ma hanno tutti la stessa voce, sembrano tutti uguali, e questo è un effetto voluto. Torna in mente la celeberrima scena di American Psycho, dove uno stormo di uomini d’affari bianchi e benestanti col sorriso e capelli perfetti si scambia i biglietti da visita: una versione più breve, quieta, dell’esistenza di questi ragazzi. E qui non c’è l’appassionato commentario di Patrick Bateman, perché a Clay, di tutto questo, importa meno che a tutti gli altri – almeno apparentemente.

Perché, a fare da sottofondo a tutte queste scene senza scopo, sotto tutto questo distacco, esiste un appiccicoso e oscuro male di vivere. In questa attualizzazione del sogno americano, in cui ti svegli ed è già lì, già realizzato, sei già ricco, allora per che cosa vivi? Cosa c’è da conquistare? Per cosa dovresti impegnarti? Qual è lo scopo del duro lavoro, della disciplina, anche solo dell’autoconservazione, se sei abituato a pensare che tutto può essere aggiustato coi soldi, e ciò che non si aggiusta si sostituisce?

I giovani personaggi del romanzo hanno imparato tutto questo dai loro genitori, altrettanto egoisti, distratti, materialisti e senza scopo. Persone per le quali i figli possono fare quello che vogliono (se esagerano, basta pagare e ridurre tutto al silenzio), purché mantengano un minimo di facciata e non parlino mai apertamente delle loro bravate.

Da questo punto di vista, iconica è stata la scena in cui Clay, palesemente reduce da una serata a base di cocaina, va a fare colazione con suo padre. Accenna al fatto che sta facendo uso di droghe, e suo padre risponde “Non ho sentito”, spingendo Clay a ribattere che probabilmente è stanco per lo studio. Clay è pallido come un cencio, suda e trema, ma suo padre non vuole certo sentirsi dire la verità, questo non “starebbe bene”.

Nemmeno lo psichiatra aiuta: anziché aiutare il suo paziente, blatera della sceneggiatura che sta scrivendo. Non vede l’ora di entrare nel circuito di Hollywood, e nemmeno quando Clay scoppia a piangere nel suo studio mostra un minimo di interesse.

(Lo psichiatra) Si alza, attraversa la stanza e raddrizza la copertina incorniciata di un numero di Rolling Stone con la foto di Elvis Costello […].

«Ti piace? L’hai visto all’Amphitheater? Sì? Adesso è in Europa, mi pare. Almeno, così hanno detto a Mtv. Ti è piaciuto l’ultimo album? »

«E io?»

«Tu cosa?»

«Io».

«Andrà tutto bene, vedrai».

«Non so», dico «Non credo».

«Parliamo d’altro».

«Ma… e io?» ripeto con un urlo soffocato.

«Avanti, Clay», dice lo psichiatra «Non essere così… banale».

Tra monotonia e vuotezza

L’esasperato egocentrismo e la vuotezza dei giovani personaggi provoca una sensazione di rifiuto nel lettore, che però è controbilanciata dalla compassione, perché è evidente che questa vuotezza è appresa dal mondo degli adulti. I giovani sono le prime vittime e a loro volta, in futuro, saranno perpetratori (probabilmente già lo sono), in un ciclo infinito di abuso e cattivo esempio.

È difficile capire cosa si voglia fare della propria vita, del resto, quando tutto appare senza significato, finto.

La pecca di questo romanzo sta proprio in quella monotonia che è il fulcro dell’opera stessa: il lettore è cosciente che sia una sensazione voluta, la rappresentazione dello stato d’animo dei personaggi, il significante che rispecchia il significato; è però scoraggiante inoltrarsi in pagine e pagine di scene e avvenimenti perlopiù privi di significato e scollegati fra loro, senza riuscire a interessarsi a personaggi che sembrano tutti uguali.

Malgrado non si possa definire un romanzo piacevole, Meno di Zero è un romanzo notevole: il giovanissimo autore è riuscito a distaccarsi e a cogliere uno spaccato di realtà con estrema lucidità, e a riportarla sulle pagine in maniera tale da comunicare ai lettori sentimenti che ben rispecchiano quanto avviene nella narrazione. Leggendo Meno di Zero non si ha l’impressione di leggere una storia, ma di assistere, piuttosto, alla vita reale di qualcuno. E la vita reale non è fatta di avvenimenti importanti che si inanellano in rapporti di causa-effetto, ma di mera quotidianità. E questa quotidianità, per quanto composta di eccessi, per quanto lontana da noi, può essere tediosa esattamente quanto una “normale” vita da classe media in provincia.

Maria Giulia Taccori