Le cattive chi sono? Sono donne, sono farfalle, sono corpi che col tramonto escono dalla crisalide e prendono vita. Figure aliene, imbottite di olio motore. Le cattive sono seni rigonfi, aggiustamenti plastici, cuori palpitanti sotto chili di carne venduta sul marciapiede. Sono trucchi, parrucche, tentazioni.

Sono “la pecora sono la vacca, se agli animali si vuol giocare“, cantava De André in Princesa. Sono come il Parco, dove si dirigono a testa bassa – invisibili, finché non riacquistano presenza nell’alzarla, quella testa: “un ventre voluttuoso, un recipiente di sesso senza vergogna“.

Le cattive di Camila Sosa Villada sono donne transgender, che si riuniscono alla casa di Zia Encarna (“la pensione più frocia del mondo“), che ha centosettantotto anni e un corpo materno plasmato dalla chirurgia clandestina. Sono La Machi, santona trans che cura qualsiasi male col fumo del suo sigaro e l’alcol; sono Maria la muta, a cui crescono le ali; sono Camila, che di giorno va all’università come uomo e la notte si prostituisce al Parco.

Dal ritrovamento di un bambino abbandonato, Camila prende spunto per raccontare la vita di tante donne transgender – tra cui la propria – e il degrado di un mondo perbenista che cerca di controllare e incasellare la diversità. Con una voce forte, cruda e inaspettatamente poetica, mostra i binari paralleli dell’esistenza in un esordio tradotto magistralmente da Giulia Zavagna per SUR.

Le cattive: l’impronta dell’odio sui corpi

Se qualcuno volesse azzardare un’interpretazione della nostra patria, di questa patria per la quale abbiamo giurato di morire a ogni inno cantato nei cortili della scuola, questa patria che si è portata via le vite dei giovani nelle sue guerre, questa patria che ha seppellito la gente nei campi di concentramento, se qualcuno volesse fare un resoconto esatto di un tale schifo, allora dovrebbe vedere il corpo della Zia Encarna. Siamo anche questo, come paese: il maltrattamento inflitto senza tregua ai corpi delle trans. L’impronta lasciata su certi corpi, in modo ingiusto, convulso ed evitabile, quell’impronta d’odio.

In Le cattive, il tema del corpo è onnipresente. D’altronde, è inevitabile che parlando di donne transgender il corpo sia al centro dell’attenzione: l’intero percorso per il riconoscimento della propria identità di genere passa attraverso il rifiuto, la modifica e il recupero del corpo, attraverso la necessità di riconoscersi allo specchio, sempre pronto a restituire un’immagine distorta, disforica del sé.

Eppure, in Le cattive, il corpo non è solo l’elemento da decostruire e plasmare per rinascere. Prima di tutto, i corpi raccontati da Camila Sosa Villada sono corpi desiderosi di spazio, pronti a prenderselo a gomitate se necessario. Che questo spazio sia un posto letto nella casa rosa di Zia Encarna, o a fianco di un uomo, o un posto nel mondo – e quanto la ricerca del proprio posto tocca da vicino la tematica transgender… – poco importa: si parla di spazio da occupare, da vivere. Uno spazio che ha una sua corporeità e che viene, appunto, occupato da questi corpi in fase di definizione.

Corpi che vengono maltrattati, non dalle loro occupanti, ma dal mondo esterno. Ciò che colpisce, infatti, non è la “violenza” che si può avere verso un corpo assegnato da una Natura traditrice, ma quella vera, perpetrata da chi quei corpi li ricerca per una notte d’amore a pagamento e poi li denigra, in nome del decoro alla luce del sole.

La castrazione della luce

La luce è la nemica delle trans, ci spiega Camila. Le cattive sono creature notturne, che prendono vita tra le ombre, appena i raggi del sole scompaiono all’orizzonte. Come i sogni, gli stessi sogni che vendono a poco prezzo a clienti instabili, contorti. Uomini che davanti a quei corpi si specchiano nella propria ipocrisia e reagiscono con la violenza, verbale e fisica.

Perché il sogno li mette di fronte alla realtà e, in quanto cassa di risonanza della loro attrazione verso l’incomprensibile, va distrutto nel momento del risveglio.

Così, la violenza sui corpi delle trans non passa solo attraverso le percosse, gli stupri e gli insulti. Si fa più sottile, più infida nel tentativo di nascondere quei corpi multiformi, fuori da un canone prestabilito. Il sistema scelto non è occultare: è accecare. Largo ai lampioni, largo alle insegne al neon, largo a tutto ciò che illumina gli angoli, così da poter costringere i corpi trans in angoli sempre più piccoli, ristretti. Limitati.

Ecco, forse la parola d’ordine che permea Le cattive è proprio “limitazione”. Le donne che frequentano casa di Zia Encarna hanno subito una castrazione della propria libertà: da piccole, costipate nel ruolo e negli abiti maschili. Da adulte, costrette a celarsi dietro un’apparenza fittizia durante le ore diurne. Da adolescenti, quando la scoperta di sé conduce alla dispersione, al rischio, alla paura. Da vive. Da morte. Da sopravviventi. Da sopravvissute. Una libertà limitata allo spazio che il mondo concede loro, sempre alle prese col tentativo di conquistare un centimetro in più di tolleranza, un millimetro d’accettazione, senza essere picchiate o ammazzate.

E ancora, la limitazione che loro stesse pongono alla propria identità: per comodità, per paura, per altruismo. Per amore, addirittura, quando la più tenace di loro, colei che aveva sempre camminato a testa alta, si lascia crescere la barba, in un atto da martire che ha del sacrale.

Perché queste donne, Le cattive che si esprimono solo attraverso una corporeità intransigente, hanno una loro ritualistica, un loro codice di sacrificio, una religione del femminino. Sono Madonne e Maddalene. Sante e Tentatrici. L’amore sacro e l’amor profano, per scomodare ancora Fabrizio, Dove tra ingorghi di desideri/Alle mie natiche un maschio s’appende/Nella mia carne tra le mie labbra/Un uomo scivola l’altro si arrende. E che, alla fine, come i sogni, spariscono all’arrivo dell’alba, in attesa di essere evocate in una memoria scritta, lunare, che alterna una crudezza descrittiva alla più alta poesia, in un saliscendi di realtà e fantasia che ha il sapore delle verità celate dietro l’ipocrisia del E vissero tutti felici e contenti.

Giulia Manzi