Un concerto. Ansia. Aspettativa, il timore e la concretizzazione di un fallimento, nota stonata all’interno dell’armonia del successo. Si apre così La viola di Sara, esordio di Francesco Montonati (Aporema edizioni): una storia ritmica, incalzante, che segue il ritmo dell’archetto sulle corde.
La viola di Sara: un cliché interrotto
Sara, trentasette anni, un passato da musicista internazionale, vive il suo inferno quotidiano. Abita in un quartiere della periferia milanese, mantiene il compagno e la figlia di lui lavorando in un call center e tiene in vita la passione per la musica suonando la viola da gamba in un’orchestra amatoriale. Quando il talentuoso violista José Hidalgo le propone di raggiungerlo a Barcellona per un ambizioso progetto musicale, Sara intravede una luce nel buio, ma il peso di un passato irrisolto la risucchia in un vortice emotivo di ansia e sensi di colpa, dove la conquista della realizzazione personale, affettiva e professionale, si fa sempre più difficile.
La prima cosa che viene in mente, alla lettura della quarta di La viola di Sara è uno sconfortante dubbio: “Non è che si tratta della solita storia con la protagonista che dopo una vita di miserie ottiene successo a caso?”. In pratica: uno di quei cliché strabusati con cui solo in periodi di vera sofferenza autoinflitta si può andare d’accordo.
Invece, La viola di Sara colpisce in positivo, sfruttando il cliché a proprio vantaggio, stritolandolo e convertendolo in una storia di realizzazione personale che non va nella direzione prevedibile, bensì ne diverge con naturalezza per portare a una conclusione forse più amara, ma senza dubbio più realistica. Con personaggi non scontati, e soprattutto non completamente bianchi o neri, lo stereotipo della virago viene diluito all’interno di una narrazione serrata, ben immersa nella contemporaneità.
Perché forse non ci si salva da soli, ma a tirarti fuori dalla cloaca dell’esistenza non è neanche il principe azzurro.
Un trittico di immersività musicale
Sara è una musicista ed è nella musica che configura la propria identità. Il resto del mondo le è estraneo, ne è disconnessa, e non riesce ad accettare la piega che ha preso la sua vita da quando, per “punirsi”, ha relegato la musica a una parte secondaria della sua vita. Questo rapporto totalizzante di identificazione con la propria viola, è ciò che la conduce a tentare, un’ultima volta, la carriera musicale.
Dalla sua arroganza – perché Sara è presuntuosa, perfino antipatica nel suo ergersi su un piedistallo con estrema autoreferenzialità – esplodono però le insicurezze e le ansie che la tormentano e che Sara cerca di gestire con l’abuso di alcol e medicine. La musica, quanto l’oblio donato dagli alcolici e dagli ansiolitici, è elemento appartenente alla doppia categoria di pharmakos: “cura”, ma anche “veleno”.
Per la musica, per la sua passione, Sara si ammala: sacrifica la giovinezza, gli affetti, la propria umanità in modo da diventare una cosa sola con la viola. E quando questa simbiosi trittica (Sara-Viola-Musica) crolla, Sara si infuria, pesta i piedi. In un certo senso, fa i capricci finché non le si presenta l’occasione che lei ritiene le fosse stata ingiustamente sottratta anni prima.
Eppure, è proprio quando raggiunge l’apice, proprio quando il sogno è a portata di mano, che le nevrosi, tenute a bada dalla supponenza e dalla certezza di meritarsi di meglio, esplodono, rischiando una caduta ben peggiore.
Qui, però, sta il bello de La viola di Sara: raggiunto un sogno, ci si può accorgere che non è quello che volevamo, o meglio: quello di cui avevamo bisogno. Ed è nel riconoscersi in altro rispetto all’immagine che ci siamo fatti di noi, in un riflesso sconosciuto, che ci si ritrova davvero.
La viola di Sara è una prova d’esordio forte, di buon intrattenimento ma anche di riflessioni su ciò a cui rinunciamo per le ambizioni e ciò che vale davvero la pena conservare. La scrittura immersiva di Montonati accompagna con un ritmo mai cadente un ottimo esempio di una protagonista femminile realistica e ben strutturata, scevra di moralismi o affettazioni.
Un encomio ulteriore, va al lessico: semplice, diretto, privo di orpelli barocchi, ma efficace nei passaggi tecnici. Un lavoro interessante, da leggere con un buon bicchiere di vino e un Duetto in Re Minore di Schaffrath in sottofondo.
Giulia Manzi
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