L’esordio di David Foster Wallace, La scopa del sistema (Einaudi), è un’incognita. Di genere e di fatto, perché l’opera prima dello scrittore statunitense non è un saggio, anche se potrebbe sembrarlo, non è un romanzo, sebbene si classifichi come tale… semplicemente non è qualcosa di classificabile, il che lo pone – senza ombra di dubbio – in quell’ambiguità che tanto confonde lettori, critici e librai, i quali, di sicuro stufi di cercare di collocare il corposo volume tra gli scaffali, lo schiaffano nella sezione “classici” e chiudono la porta.

Più di un saggio, meno di un romanzo

Ma di che parla, o meglio cos’è, La scopa del sistema? A dire il vero, dovremmo chiederci, per rispettare l’opera stessa e il suo contenuto, qual è la sua funzione. Sì, ché la funzione, il fine ultimo di qualcosa, il motivo principe della sua sussistenza nel reale, è la vera protagonista dell’esordio di Wallace.

La stessa Lenore Beadsman, indiscusso volto femminile dell’opera, fioriera di riflessioni argute e sarcastici cipigli, si pone la domanda: qual è la funzione di tutto ciò? E per tutto il libro cerca una risposta senza cercarla, anzi crogiolandosi nel senso d’indeterminatezza, di solitudine e di accettazione di non essere altro che un personaggio tra le mani di un demiurgo.

Lenore Beadsman vs. Lenore Beadsman

I fili di Lenore sono stretti tra le mani canute della sua omonima bisnonna, ex allieva di Wittgenstein, per cui la funzione della nipote è indubbiamente il dimostrare le tesi sulla potenza del linguaggio del suo mentore. E la più sottile manipolazione la effettua con la sua sparizione, sin dalle prime pagine. La scomparsa della donna, è la miccia che elimina l’ultima protezione di Lenore dal mondo, costringendola al rapporto coatto con esso.

Lenore Beadsman sparisce, si sottrae alla sua funzione, e così facendo spinge Lenore Beadsman ad adempiere alla propria, in un gioco di essere dentro – quindi appartenere – a un sistema o essere il sistema stesso.

La destrutturazione del sistema statico a cui Lenore è abituata, è il primo passo per la costruzione di un sistema-Lenore nuovo, in cui la funzione cambia, trasmuta e si definisce attraverso l’indeterminatezza.

Ciò nonostante, anche la bisnonna di Lenore è trascinata negli eventi dalle mani di un demiurgo: l’Autore. David Foster Wallace crea così un intreccio di metanarrazione letteraria, dove i protagonisti sono allo stesso tempo persone e personaggi, narratori e oggetti narrati, sistemi ed elementi di un sistema più ampio che prende il nome di libro.

La scopa del sistema è narratività della narrazione

Wallace non si limita a raccontare una storia, bensì squarcia il velo che s’interpone tra il lettore e lo scrittore – il cosiddetto “patto di sospensione dell’incredulità” – e costringe entrambi a guardare nella spaccatura.

Opera una distruzione della membrana, quello stesso confine che avvolge i suoi personaggi, e vi scava una breccia, oltre la quale c’è solo la primordialità. Un rapporto col corpo ossessivo, disturbante, nevrotico e al limite del buon senso e del buon gusto che pone l’igiene distorta di Lenore in contrapposizione con la lordura dei desideri di Rick Vigorous, compagno speranzoso di averla, assuefatto alla presenza irraggiungibile di lei che si concede, ma non del tutto. Che lo ama, ma non completamente. Che gli si affida, ma senza fidarsi.

E nell’indefinito dei rapporti/non-rapporti che si susseguono tra tutti i personaggi/persone, appare di sfuggita un filo rosso a collegare i frammenti intermittenti di un libro caotico, indeterminato e destrutturato nel suo stesso insieme: la solitudine. L’angosciante sensazione di solitudine che avvolge l’essere umano e che porta chi a mangiare in maniera bulimica per espandersi e colmare il vuoto col cibo; chi a sparire nel nulla per sussistere finalmente solo come pensiero; chi ad affidarsi a rapporti insalubri nel tentativo di determinarsi attraverso l’Altro; chi invece ha compreso che la propria essenza è un gioco, uno scherzo infinito che non ha termine.

La scopa del sistema è un libro sul terrore dell’incertezza, sull’angoscia dell’esistenza e sulla privazione del senso di un sistema-mondo di cui l’unico vero demiurgo è la casualità, con tutta l’angoscia che questa riflessione può portare. Ed è bellissimo. Ed è bruttissimo. Ed è entrambe le cose nel suo non-essere altro rispetto a ciò che è.