La mano sinistra del buio, di Ursula K. Le Guin
Una questione dell’immaginazione
“La verità è una questione dell’immaginazione“, conclude Ursula Le Guin, nella nota di prefazione alla nuova edizione di La mano sinistra del buio (The Left Hand of the Darkness) edita da Oscar Mondadori, con la traduzione di Chiara Reali.
Sì, la verità è davvero faccenda dell’immaginario. Sono secoli che noi membri della razza umana cerchiamo di spiegare l’inspiegabile attraverso il potere della fantasia: immaginiamo, creiamo immagini per orientarci in un mondo – in un universo – dove i dubbi sono tanti, le certezze poche e ci ritroviamo sempre davanti alla nostra piccolezza.
Immaginare è l’atto creativo in potenza, un’ammissione di fede nella meraviglia, quella che spaventa, terrorizza, annichilisce di fronte all’infinito. Perché le certezze sono nemiche della vita (d’altronde, era Brecht a sostenere che “Di tutte le cose sicure la più certa è il dubbio“), resa possibile solo da “un’incertezza permanente e intollerabile: non sapere cosa sta per accadere“.
L’immaginazione è la chiave di quest’insicurezza: immaginare è la certezza dell’ignoto ed è in questo ignoto che Ursula K. Le Guin spinge il lettore – e il suo protagonista – in La mano sinistra del buio, attraverso un percorso narrativo destabilizzante, incompiuto, dove l’unica sicurezza è l’inchiostro che continua a macchiare le pagine.
La mano sinistra del buio: il suono delle parole
Sul pianeta Inverno, coperto di ghiacci perenni e dominato da una struttura semi-feudale, l’Ecumene ha inviato un emissario, Genly Ai, incaricato di convincere gli indigeni a unirsi alla Lega. Non sarà facile per lui entrare in contatto con gli abitanti di quel mondo alieno, ancora ignoto, che trascorrono i cinque sesti della loro esistenza in uno stato ermafrodito neutro, per poi essere maschi o femmine solo nei giorni del kemmer. Per riuscire nel suo intento, l’Inviato dovrà superare differenze biologiche, culturali, psicologiche, sociali e comprendere articolate organizzazioni politiche, oltre che affrontare condizioni estreme in un attraversamento del grande Nord degno di Jack London.
La prima volta che lessi La mano sinistra del buio portava il titolo de La mano sinistra delle tenebre, era un’edizione vecchissima, logora e – ahimè – prestata con scadenza inequivocabile: avevo una giornata per finirlo, il tempo della mia permanenza a casa degli amici. Quel volume non doveva uscire dall’abitazione, perché troppo vecchio, troppo rovinato e troppo amato per rischiare una lettura priva di sorvegliante o una mancata restituzione.
Divorai, pagina dopo pagina, le avventure di Genly Ai ed Estraven, gli intrighi politici di Gethen e la loro spossante traversata del ghiacciaio. In una bulimia fagocitante pagine, lo terminai in fretta e lo restituii al legittimo proprietario. Ne seguì una ricerca affannosa di una copia, tra mercatini dell’usato, Ebay (Amazon, all’epoca, era un lontano miraggio), librerie… niente. Quella lettura restò unica e impressa nella mia mente come fuoco.
Dovetti aspettare dodici anni perché qualche casa editrice decidesse di ripubblicare quel libro. Dodici anni prima dell’annuncio da parte di Mondadori, un soffio sulle braci della mia passione, solo dormiente e mai domata, che divampò e tornò a essere assillante. Poi, finalmente, eccolo. Questo Natale, tra le mie mani. Una giornata per divorarlo completamente. Di nuovo. Di nuovo a Inverno. Di nuovo a studiare quel mondo privo delle sovrastrutture di genere. Di nuovo cullata dalle parole che “hanno anche un suono (…) una frase o un paragrafo sono come un accordo o una sequenza armonica nella musica“, perché Le Guin ha il raro dono di creare sinfonie con esse. Conosce il valore e la potenza del linguaggio, l’importanza della sua funzione nella formulazione del pensiero. Non per nulla, Gently Ai è in grado di comunicare telepaticamente, ma bisogna farlo in una lingua conosciuta a entrambi gli interlocutori, così da permettere la giusta traduzione di ciò che si vuole trasmettere. E, sempre non per nulla, in tale linguaggio silenzioso è impossibile mentire, perché i pensieri trafiggono come spade e le parole feriscono con suoni familiari.
Ed ecco, la gioia di una nuova traduzione. Perché Chiara Reali non si è limitata a tradurre l’opera di Le Guin: ne restituisce la voce, dà corpo ai suoni e alla musica del testo. Le differenze tecniche tra la precedente e l’attuale traduzione scompaiono, come quelle tra i differenti tipi di neve di Gethen: ne esistono tipi diversi, ma alla fin fine, sotto al manto bianco, si viene investiti solo dal silenzio di tuono delle parole.
Al di là del genere: il superamento della dualità
La mano sinistra del buio, prima di essere un meraviglioso romanzo di fantascienza, è un’opera filosofica sul potere dell’immaginazione, sulla comprensione del diverso, sull’elogio della meraviglia e sul superamento delle differenze. Le Guin pone in evidenza il derridiano scalino della dif-ferenza, quella frattura che permette di riconoscersi nell’altro non attraverso ciò che ci rende simili, ma nel confronto tra le dissomiglianze.
La luce è la mano sinistra del buio,
e il buio è la mano destra della luce.
Due sono uno, vita e morte,
e giacciono insieme come amanti in kemmer,
come mani giunte,
come la méta e la strada.
Recita il Canto di Tormer. E in queste parole si trova la risposta a tutto: è facile riconoscersi ed empatizzare con chi consideriamo uguale, ma è il diverso a permettere di conoscere noi stessi. Perché la dualità “è essenziale, non credi? Purché ci sia me stesso e l’altro“.
Nello svolgersi della narrazione de La mano sinistra del buio, avviene il costante confronto tra il terrestre Genly – maschio, finito – e il getheniano Estraven – “neutro ermafrodita“, fluido. Se Estreven è pronto a credere a Genly e alle notizie sull’esistenza di altri mondi, questo non gli accorda la stessa fiducia, a causa della mentalità binaria uomo-donna di cui è portatore.
Nella maggior parte delle società questo determina aspettative, attività, modi di pensare, etica, maniere… quasi tutto. Vocabolario. Usi semiotici. Abiti. Persino cibo. (…) è molto difficile riuscire a separare le differenze innate da quelle apprese.
Afferma l’Inviato, nel tentativo di spiegare a Estraven come funziona una società binaria.
Per sua stessa ammissione, il contesto sociale a cui appartiene Genly dà un estremo valore al sesso d’appartenenza e crea una serie di sovrastrutture che attribuiscono ai due generi binari certe caratteristiche (di virilità, prestanza, orgoglio, volubilità, delicatezza, ecc.). Le stesse che a Gethen possono essere attributi caratteriali, non sociali. L’assenza di un genere d’appartenenza e la fluidità del ruolo sessuale durante il kemmer, evita la divisione. “L’uguaglianza quindi non è la regola?” chiede Estraven. E Genly non sa cosa rispondere, semplicemente perché non ci ha mai pensato. Il suo contesto d’appartenenza gli impedisce di concepire alle donne come qualcosa uguale a lui, tanto da risultare ai suoi occhi più aliene di Estraven con cui, almeno, “condivido un sesso“.
Lo shock culturale non era chissà cosa rispetto a quello biologico che pativo in quanto maschio umano tra essei umani che erano, per i cinque sesti del tempo, neutri ermafroditi
Sostiene Genly, mentre la sua mascolinità granitica comincia ad ammorbidirsi. Diviene più fluida, come “fango”, sostiene Nicoletta Vallorani nella post-fazione. Forse è un caso che l’occhio con cui seguiamo l’opera sia quello maschile di Genly? Non credo. Uno sguardo “femminile” non avrebbe permesso la stessa crescita del personaggio principale, la stessa trasmutazione da solido a liquido, perché le donne sono state più costrette all’adattabilità in un mondo costruito a beneficio del maschio. Era necessario un uomo, biologico e binario, per innescare il senso di mutamento; il crollo delle certezze del diritto di nascita, per creare le giuste domande da lasciare in sospeso e promuovere, così, la vita.
La mano sinistra del buio: domande e incertezze
In La mano sinistra del buio sgorgano, impetuose, le questioni di genere, la percezione di un occhio machista (più volte Genly ammette con sé stesso di quanto il tener fede al ruolo di genere, sebbene atto spontaneo, sia “invalidante” nel suo relazionarsi con i getheniani), la denuncia della condizione femminile (sebbene nel romanzo non appaiano donne vere e proprie, se non in un report sugli usi e costumi di Inverno), la necessità e il bisogno di riconoscersi nelle differenze… e tutto questo, tutta quest’enormità viene trattata con schiettezza, semplicità e profondità tali da rendere difficile prendere consapevolezza che il romanzo è stato pubblicato nel 1969, quasi sessant’anni fa. Due, o tre, generazioni fa.
Ma il tempo, alla fin fine, è solo una percezione. Quello che resta, della lettura, è un mondo ovattato, dove le parole ti avvolgono come la neve. Un universo così intriso di umanesimo, di vita, di prospettive, di incertezze, da chiudersi con una domanda: “Ci racconterete degli altri mondi fra le stelle – degli altri tipi di uomini, delle altre vite?“.
Possiamo solo sperare che la risposta sia “sì”
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