Exilium – Anabasis: gli angeli guardano i cantieri, i diavoli li creano
Inferno. Un groviglio oscuro di tentacoli affamati. Una creatura lovecraftiana che avviluppa, divora e sbrana tutto ciò che incontra e che, con ingordigia animalesca, tende verso la soddisfazione delle proprie brame. Lì abbiamo lasciato Hemah/Bartolomeo e Af/Gregorio nel precedente volume, al principio della loro catabasi; qui li ritroviamo immersi nel tentativo di risalire, di procedere con una anabasi. Risalita, tuttavia, resa più ardua dall’aver raggiunto il proprio obiettivo, quindi di aver smorzato quella tensione desiderante che li ha spinti a tuffarsi nelle profondità dell’Averno.
Ed è proprio di desiderio che parliamo, nel leggere Exilium – Anabasis (IDEA – Immagina Di Essere Altro), di Andrea Piera Laguzzi e Hilary Sechi, seguito e conclusione di Exilium – Katabasis. Se nel primo volume la tensione desiderante, per quanto presente, si limitasse a un allungarsi attraverso il tempo e lo spazio, in Anabasis l’elastico si spezza e instaura una serie di reazioni a catena che portano all’inevitabile crollo proprio nel momento in cui si entra in possesso dell’oggetto del desiderio.
E allora, l’unico modo per poter effettuare una risalita, è mollare la presa. Lasciar andare, per raggiungere il vero obiettivo, quello nascosto nelle profondità dell’inconscio. Si contrappongono, così, due desideri: quello soggettivo, cosciente, e quello oggettivo, ovvero il desiderio del cuore, celato nell’anima e frutto di un disegno più grande di cui la traccia non è dato conoscere.
Exilium – Anabasisi: l’anelito del desiderio
In Exilium – Anabasis, quindi, convergono diverse tensioni desideranti: Af desidera l’approvazione di Bartolomeo. Bartolomeo vuole recuperare l’anima della donna amata dagli inferi. Lorena vuole raggiungere Greg, Azzurra tende verso Hemah. E a questi si aggiungono i desideri di angeli e diavoli: Lucifero desidera Af, Agaliarept la Stella del Mattino, Abyzou Af, ma anche l’approvazione del suo sovrano; Michele vuole il suo piatto e ritrovare le tracce del Padre, Uriele si spinge verso Hemah. Perfino Inferno, il cuore pulsante e senziente del Tartaro, è preda di una tensione desiderante così forte da risultare famelica e manipolatrice: è affamato e vuole divorare il creato, in preda a una folle e cieca ingordigia che lo pone come vero Burattinaio della situazione, al posto di Dio.
Al centro di questa spirale, Raffaele, unico ordinatore e mente razionale nel caos delle pulsioni, il cui unico desiderio è riuscire a sistemare una situazione che potrebbe portare al collasso il Creato. Un desiderio più alto, meno privato che, sebbene contaminato da tanti piccoli desideri inconsci, è scevro dall’egoismo personale e mira al benessere, vuoi dei suoi cari, vuoi collettivo.
Ma Raffaele, che riveste il ruolo della Ragione che si oppone all’Istinto, può svolgere la sua parte solo in quanto è sì desiderante, ma non desiderato. Difatti, è l’unico che non risulta, al netto delle cose, oggetto del desiderio degli altri personaggi. Questa mutilazione della doppia natura che avvolge Hemah, Af e tutti gli altri – umani, angeli o diavoli – è la cosa che gli permette di ergersi al di sopra delle parti e, in conseguenza, a svolgere alla sua funzione di Virgilio occulto che porta i vari attori a convergere verso il risultato finale. In un certo senso, rappresenta l’altro lato del desiderio: quello della mancanza.
Exilium – Anabasis, infatti, si distingue per questa sfaccettatura del desiderio stesso: non solo “oggetto bramato”, non solo “speranza vana di raggiungere un obiettivo”, ma anche “mancanza di qualcosa di necessario” e “rincrescimento” o “rimpianto”.
È infatti da questi significati nascosti che parte il dedalo di strade che muove l’intera storia: i personaggi si muovono chi per brama, chi per speranza, chi per mancanza, ma tutti loro sono accomunati dal rimpianto. Rimpianto del Paradiso, rimpianto di un’infanzia perduta, rimpianto di un amore finito, rimpianto di un riconoscimento mancato e, ancora, rimpianto di non aver soddisfatto le aspettative, fino a sentirsi schiacciati dal peso delle responsabilità. E allora, in virtù di questo rimpianto, di questo desiderio mancato, appare ciò che permette di restare in piedi e sopravvivere: la fede.
Fede, però, che non va letta in chiave esclusivamente teologica. Anzi, i personaggi di Anabasis – angeli compresi – sono quanto di più distante da una persona religiosa che si possa immaginare. La fede, in questo caso, è l’atto stesso di affidarsi, abbandonarsi all’altro e saper delegare. Insomma, l’atto di fede è lasciarsi cadere, smettere di salire e lasciarsi precipitare, perché solo senza opporsi alla caduta, solo lasciandosi sprofondare nei propri abissi interiori, si può raggiungere il fondo e scoprire che lì ci sono due braccia pronte ad accoglierti.
Aneliti prometeici: quando per risalire devi lasciarti cadere
All’interno dell’intera opera di Laguzzi e Sechi non è raro incontrare un fiorire di citazioni: musicali, classiche, cinematografiche, ma anche letterarie. E se all’inizio di ogni capitolo si è accompagnati da un versetto dantesco, l’interno del libro è permeato dal mito prometeico, una miltoniana e luciferina premeditazione delle azioni più alte. Hemah e Af pianificano, sperano, desiderano, ma come tutti gli odierni Prometeo (il cui nome significa proprio “premeditazione”, a simbolo della volontà stessa di compiere un’azione che arrecherà danno a sé o a qualcun altro), sono destinati a trovare la gloria solo nella propria consunzione.
Solo nel tragico finale, infatti, tutti i personaggi trovano sé stessi. E lo fanno quando hanno raggiunto il colmo della disperazione, quando l’abisso è entrato a tal punto dentro di loro da avere solo due scelte: accettarlo o soccombere.
Eppure, in questa caduta disperata, in questa Anabasis che non consente una vera risalita, si affaccia l’apocatastasis, quello che Origene definisce come «l’ultimo e definitivo ritorno di tutti gli esseri, Satana incluso, al regno di Dio come era prima della caduta», un retaggio del Padre della Chiesa San Clemente di Alessandria, che riteneva che a tempo debito tutti i peccatori avrebbero potuto essere salvati. Ed è l’apocatastasis a definire il “diritto al pentimento”, appannaggio perfino di Lucifero stesso.Il libero arbitrio, in questo processo, è imperante. Per quanto il disegno divino si dipani come un quadro di cui all’inizio non conosci il soggetto, un’illusione ottica dell’anima, in Exilium – Anabasis il libero arbitrio è concesso a tutti: ignavi, umani, angeli e diavoli. Perché sono le scelte che, come nel primo libro, conducono gli erranti alla meta attraverso i loro sbagli.
L’apocatastasis – il ritorno a Dio – si contrappone, però, all’hybris, alla ribellione, alla deviazione dal percorso designato. Un peccato che conduce all’Ate, la punizione che prevede l’offuscamento della mente e – in conseguenza – porta l’uomo a commettere azioni superbe e malvagie fino a provocare la vendetta divina (Nemesi). Strada verso la predestinazione, quindi, e deviazione, dove in gioco l’agathos (l’eroe) di turno mette la propria gretè (virtù) e viola i limiti, cade nell’hybris in una discesa che pare una risalita e una risalita che pare una discesa. E solo ritrovandosi nell’altro, anche nel più impensato, solo quando le speranze – il desiderio – sono morte, uccise dalla loro stessa realizzazione (perché raggiungimento dell’obiettivo e desiderio non esistono nello stesso istante), è possibile vincere la propria hybris e recuperare sé stessi. La caduta, quindi, diventa riscoperta, una nuova meraviglia, un thauma annichilente che permette di spalancare lo sguardo sull’immensità dell’abisso e recuperarsi. Cadere, in questo caso, è un atto di fede che tutti sono chiamati a compiere.
Un dedalo infernale di città: la corruzione della metropoli
Se una delle protagoniste di Exilium – Katabasis era indubbiamente Genova, in Exilium – Anabasis il ruolo di metropoli è rappresentato da Inferno.
L’Averno, infatti, è un arcipelago corrotto, dove fabbriche produttrici di colostro, deformi canali e bolge che nulla hanno da invidiare al traffico cittadino, fanno da padrone sotto continue piogge acide che si riversano incessanti sulle baraccopoli dei demoni.
L’aspetto cittadino, tuttavia, non è solo mera ambientazione: esso è il cuore pulsante degli inferi, concretizzato nella visione tentacolare di Inferno, la creatura lovecraftiana esistente da prima dell’Inferno stesso. Un mostro famelico, ingordo, che ricorda il cammino compiuto da Lucifero nel Paradiso Perduto di Milton, attraverso le profondità del Pandaemonium. Lì, incontra Colpa e Morte, da lui stesso generati, e supera la frattura per raggiungere l’Eden.
Questa alienazione, questa colpa e morte generati dalla caduta, sono riportate in una città labirintica, corrotta e corrosiva, in cui i demoni si muovono come erranti simulacri di rabbia, disperazione e rimpianto. La prospettiva individualista delle grandi metropoli, dove nessuno incontra mai veramente l’altro, è il sangue che scorre nelle vie di Inferno, nelle sue brame egoistiche e prevaricatrici, rappresentazioni di una natura molto più umana di quella che i demoni stessi sono disposti ad ammettere.
In questa città mostruosa, l’unica luce è effettivamente Lucifero, che vi sguazza, la controlla, la gestisce cercando di garantire la massima libertà, per la paura di riconoscersi nelle gesta di un Burattinaio dal quale si vuole distaccare. Un figlio, eternamente adolescente, il cui unico scopo è distaccarsi dal retaggio genitoriale, di dimostrare la propria individualità. Troppo immaturo per sapere che sangue chiama sangue e che l’affrancamento dai genitori è più un’illusione che una possibilità effettiva.
Allo stesso tempo, l’inferno è anche la zona dove avviene la kerostasia, la pesatura dei destini che viene rappresentata dall’Iliade e ripresa nel cristianesimo, ma che affonda le sue radici addirittura nell’Antico Egitto, per la precisione nel mito di Osiride. Non per nulla, l’oggetto primario della contesa è il piatto della bilancia di Michele, il rituale richiede un cuore che sia abbastanza pesante ed empio da destabilizzare l’ago della bilancia a tal punto da spalancare la Frattura e portare la città-inferno nel mondo.
“Secondo me Lucifero ha bisogno di una vacanza”, perché non si piange soltanto
Uno dei punti di forza di Exilium – Anabasis e della scrittura chiara e pulita di Sechi e Laguzzi è senza dubbio l’abilità di bilanciare dramma e commedia, in una rappresentazione quanto mai realistica dell’esistenza. Alle tragedie si contrappongono le risate (emblematico quando Uriele stordisce la badante), alle lacrime di dolore quelle di gioia. In sé, tra personaggi sull’orlo di una crisi di nervi, esaurimenti nervosi e dispute familiari, l’intera saga di Exilium ha il sapore agrodolce di un bel film che lascia il ricordo amaro di un viaggio on the road ormai concluso, con compagni di viaggio imprevedibili.
E quando si arriva alla fine della strada, come della vita, è opportuno accomiatarsi al meglio, con un ultimo, grande grido liberatorio che sa di speranza.
Giulia Manzi
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