Ci sono libri che hanno il sapore dell’infanzia, alcuni addirittura l’odore.
Questo è il caso de Il castello di carte, di Gianni Rodari, edito da Mursia nel 1994. Il libro fa parte della collana Beccogiallo Poeta, una serie di libri profumati che ha ospitato anche la celebre Polyanna (e che, a me, capitavano tutti al profumo di pescarosa).
Il castello di carte è forse uno dei libri meno conosciuti di Rodari, eppure è quello attorno cui circolano due altri nomi noti: Emanuele Luzzati e Giulio Gianini.
Per questo, nella settimana del compleanno di Rodari, ho deciso di proporlo come libro del mese.
L’incontro
1962, un anno importantissimo per Rodari. Incontra, infatti, Emanuele Luzzati e Giulio Gianini. Lo scrittore porta ai due animatori la sceneggiatura de Il castello di carte.
L’opera di Rodari viene trasposta in un cortometraggio, attraverso lo stile inconfondibile di Luzzati e la voce garbata di Paolo Poli. Nonostante l’adattamento non fu un successo, tanto che Luzzati e Gianini persero la pellicola originale, servì a creare un’amicizia indelebile che portò a nuove collaborazioni tra Rodari e Luzzati. Tra queste, lo spettacolo teatrale La Storia di tutte le Storie e almeno una decina di testi illustrati delle storie di Rodari.
Il castello di carte
Cosa rende, però, Il castello di carte un’opera simbolo della produzione rodariana? Intanto, la trama: la storia racconta del Re di Denari (il più avaro di tutti gli avari), della Dama di Picche (la più ricca di tutte le ricche) e una serie di personaggi associati ai semi delle carte che finiscono in rocambolesche situazioni, risolte grazie alla sostituzione con il buon Jolly tutto-fare.
La giostra degli eventi, tra oggetti umanizzati e rime, è un incredibile monumento alla Grammatica della fantasia e al binomio fantastico a cui Rodari si rifà continuamente. Ma non solo: i temi proposti sono caratteristici della produzione dello scrittore. La povertà, le differenze sociali, l’abuso di potere e la spietata critica all’avarizia e al sistema carcerario sono tutti ripresi all’interno del libro, come la risoluzione che vede gli egoisti consumarsi nella loro stessa avarizia e coloro che si sono dimostrati capaci di umiltà, amore e altruismo vengono premiati con la serenità, la pace e la gioia.
Il castello di carte e la forza del rifiuto
Al termine della favola, al Jolly viene assegnato l’incarico di carceriere. Proprio in quel momento, il tutto-fare, che fino a quel momento aveva subito e accettato gli incarichi più degradanti (Ho fatto il fante, ho fatto il facchino, ho fatto pure il cavallino…, dirà al Re di Denari), rifiuta. Un “no” categorico, dovuto all’alta idea di giustizia del Jolly che, nato per sostituire ogni tipologia di carta, non scende a compromessi quando si tratta di segregare gli innocenti.
Questa è la grande forza de Il castello di carte. Un’opera che porta a riflettere sulle azioni, sulla scelta, sui compromessi a cui siamo disposti a scendere e quelli che non siamo disposti a fare, in nome della propria dignità e della libertà stessa.
Non mancano, oltretutto, le riflessioni sulle conseguenze del proprio egoismo. L’opulenza della Dama di Picche e del Re di Denari, la loro assente generosità e le ingiustizie che hanno perpetrato ai danni dei deboli, li conducono a consumarsi nella loro stessa avarizia, fino a quando…
Restarono solo due striscioline
per poter scrivere la parola
FINE
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