Roma, Torricella. La canicola estiva che scioglie l’asfalto e, con esso, le vite dei protagonisti di Grande nave che affonda, l’esordio di Andrea Cappuccini per Blu Atlantide.

Nel quartiere della periferia romana, pronto a essere assorbito dalla metropoli, la famiglia Romano sta vivendo il lutto dell’assenza: Taddeo, il figlio maggiore di Viviana e Camillo, è stato portato al carcere di Rebibbia.

Nel caleidoscopio di persone che ruota attorno alla casa dei Romano, si trova Diego, migliore amico di Taddeo e “inquilino” della famiglia. Ha una casa, ma non vi torna. Studia all’università, ma non dà gli esami. Si muove, presenza labile e discontinua, all’interno dell’abitazione senza che nessuno si faccia domande, osservatore silenzioso dei disparati sistemi di colmare quell’assenza muta.

E mentre Camillo combatte con la sua “malattia dei fulmini” e parla con il fantasma di un amico, mentre Viviana si perde in lunghe passeggiate notturne e Aurora, la sorella di Taddeo, si imprigiona nell’inedia adolescenziale fatta di serie tv e della compagnia di un anziano gatto, Torricella cambia, trasmuta, si fonde al sole di un’estate che sembra infinita.

Grande nave che affonda: la presenza assenza

Di tutte le persone che circolano a Torricella, è l’assenza di Taddeo a costituire la maggiore presenza. Senza apparire, né proferire parola, la sua persona si snoda attraverso i vicoli, davanti al bar Giaguaro, alla festa del quartiere che richiama i tempi in cui Torricella era ancora un paese a sé. E, silenzioso, pesa sulle lettere che Diego gli scrive senza mai spedirle, sulle visite non fatte di Aurora.

Taddeo, rinchiuso a Rebibbia, proietta sé stesso lungo tutta la zona, schiacciandola esattamente come le condizioni metereologiche. Torricella si squaglia sotto la canicola, Torricella si nasconde dietro la nebbia, Torricella si spacca e, con essa, si squagliano, nascondono e spaccano i suoi abitanti per l’effetto di una mancanza che gli impedisce di percepire la strada.

Da questa mancanza, difatti, prende motore l’assenza dell’azione. Senza Taddeo a cui rapportarsi, Camillo, Diego, Viviana, Settimo, Aurora e tutti gli altri sono costretti a fare i conti con sé stessi e con la propria intimità, riscoprendo sogni, paure, speranze e la desolazione di un animo davanti a un quartiere in fase di assorbimento. Carcerati, forse più di Taddeo, dallo spirito di Torricella e condannati a diventare relitti di un passato che si appresta al cambiamento.

La Grande nave che affonda è così tutto il quartiere. Torricella stessa si trasforma in un’imbarcazione in mezzo a una tempesta che la spinge contro di scogli. Eppure, non vi sbatte mai, non prende acqua. La paura dello scontro è la “continua, lenta, trasformazione” che prospetta Camillo, un terrorizzante divenire a cui l’essere umano non può opporsi, incerto e mutevole come il futuro.

La periferia umana di Grande nave che affonda

L’ineluttabilità dell’avvenire si spiega, dannosa e soffocante, davanti a Torricella e ai suoi abitanti. Ma a differenza di Settimo, di Viviana e di Camillo, che si adagiano sulle ceneri di un passato destinato a crollare, i “giovani” di Torricella ne colgono parzialmente la spinta propulsiva: Diego rifugiandosi in lavoretti, nell’università e in un amore che amore non è per Antonella; Aurora cercando di spezzare l’attesa e l’incertezza con una fuga dal reale, che del reale ha il sapore della concretezza.

Imprigionati nella struttura di un quartiere cannibalizzato dalla capitale, i personaggi vorticano realisticamente in un’assenza che si fa quiescenza, stasi. Un lento indugiare sulla soglia dell’imprevedibile e dell’inevitabile. La depersonalizzazione della periferia coincide con quella umana, con l’abbandono delle certezze e la visione di un futuro fumoso, quando non assente.

In Grande nave che affonda, Andrea Cappuccini riesce a racchiudere la sospensione generazionale che attanaglia l’umanità tutta, il bisogno di racchiudersi in una prigione esistenziale molto diversa dal carcere effettivo in cui si trova Taddeo che, paradossalmente, tra le mura di Rebibbia è l’unico realmente libero, in quanto è l’unico ad avere la certezza del termine della reclusione. Diego, Aurora, Settimo, Camillo, Viviana… tutti loro sono prigionieri della mancanza.

Una lingua restituita

Sorprendente, in Grande nave che affonda, è la restituzione di una lingua squisitamente orale. Una lingua priva di strutture grammaticali artefatte, ma anche del dialetto stesso. Una lingua restituita nella sua unicità del parlato alla propria letterarietà. Libera, come non lo sono i protagonisti del romanzo, si snoda come protagonista nella creazione di atmosfere pregnanti, complesse e realistiche, tratteggiando una Torricella inesistente eppure viva e pulsante.

Grazie a questo linguaggio, Andrea Cappuccini riesce a restituire umanità alla propria periferia e a raccontare quella stanchezza di esistere che dimora nei versi di Pessoa dell’esergo. E in questa stanchezza ci si adagia, ci si sofferma, ci si raccoglie come in un bozzolo fino all’ultima, trascinante pagina.

Giulia Manzi