Marta è volubile, insicura, scontenta e inadeguata. Marta è grassa e l’insieme dei suoi problemi si agita tra la ciccia cadente, le pieghe di troppo e un doppio mento oscillante.
Marta è obesa, e sa di esserlo; usa i depositi adiposi come capro espiatorio per un’infanzia turbata da un lutto e da un divorzio e per un’adolescenza in cui non si riconosce. È grassa, quindi le è concesso essere infelice. È grassa, quindi dalla vita non merita nulla se non delusioni, rimpianti… una vita a metà guidata da un’autoironia cinica e sconfortata, più volta a ferirsi prima che lo facciano gli altri.
Gli anni di Marta, l’esordio narrativo di Laura Tullio per Ensemble, è un romanzo autolesionista, dove la violenza che ci infliggiamo da soli supera il dolore che può arrivare dall’esterno. Con una narrazione in prima persona, l’autrice ci guida lungo la storia di Marta, così chiamata perché «era il nome da femmina che lui preferiva», riferito al nonno.
Marta è una bambina fastidiosamente puerile e per questo realistica
Marta è bambina. Una bambina grassa, obbediente e per nulla curiosa o appassionata; non brilla per acume, non ispira simpatia, né emana dolcezza. Anzi, è fastidiosamente puerile nel suo modo di fare, lì al paese dei nonni, e per questo è tanto realistica da scatenare nel lettore un senso di diffidenza e alienazione.
È così che scorre la prima parte: nella narrazione di una bambina che è troppo bambina per risultare gradevole a uno spettatore adulto. Perché Marta, la Marta piccola, è davvero piccola e con lei sono infantili i suoi ragionamenti e il suo sguardo acuto che analizza il mondo in bianco e nero; troppo giovane per rendersi conto, ancora, del grigio che popola il mondo degli adulti, percepisce però la sua volubilità, il suo intermezzo continuo.
«Gli adulti interrompono sempre i bambini mentre parlano, un po’ perché i bambini sono lenti, un po’ perché gli adulti certe cose già le sanno, anche se secondo me se ne sono dimenticati, un po’ perché hanno altri pensieri, gli adulti», riflette Marta, scoperchiando così il dramma della vita adulta, in cui le rughe «sono le cicatrici dei pensieri».
Ai pensieri, quelli degli adulti che i bambini non conoscono, ci arriva anche lei. Abbandoniamo, tra la staticità di un paesino che invecchia e la mano gentile di una nonna («La mano della nonna ha tanto tempo e tanto spazio, dentro»), un’infanzia stravolta dai sensi di colpa, per avventurarci assieme a Marta in un’adolescenza sconvolta e turbolenta, in cui vince la corporeità. Una fisicità odiata, volubile, assunta quasi a bandiera di ciò che per la ragazza è deprecabile: se stessa. Il passaggio dall’infante fastidiosa all’adolescente rozza si manifesta tanto in un cambio repentino di linguaggio, quanto nel contrasto tra l’azione statica della Marta-bambina e l’inazione dinamica della Marta-ragazza.
«Tutto ciò che resta è il fatto che io non mi potrò mai avere perché è da troppi anni che non sono più io»
Marta vorrebbe. Vorrebbe vivere, vorrebbe baciare un ragazzo, vorrebbe essere magra, vorrebbe essere felice. Vorrebbe essere amata e vorrebbe sentirsi bella. Vorrebbe «un sacco di cose che non so» Vorrebbe, ma l’unica cosa che Marta riesce a fare è amare («Tu che ne sai. Tu che temi che questa cicciona ti ami. Tu non sai cos’è il mio amore. Il mio amore lo vedono gli extraterrestri da lontano, il mio amore, se c’è, muove le galassie, il mio amore, quando verrà. Il mio amore non è ora»), e nell’amare si perde e non si trova («Tutto ciò che resta è il fatto che io non mi potrò mai avere perché è da troppi anni che non sono più io»), non si riconosce nel suo volto, non trova un io che sia sé.
Marta è un costrutto di qualcun altro. Una forma definita che contiene un fluido mobile, oscillante come il sudore acre, onnipresente, che scivola lungo le curve adipose dei fianchi e trasuda inadeguatezza. Marta è, e il suo problema si circoscrive attorno al concetto stesso dell’esistere. Perché per esistere bisogna definirsi, comporsi, rintracciare quella particella identitaria che permette di riconoscersi allo specchio e Marta, dello specchio, ha paura.
Ed è lì, nel rifiuto del riflesso del sé, che si muove la visione di un’adolescente i cui chili di troppo sono pesanti quanto le paure; in cui il grasso è solo l’espressione visiva del desiderio di punirsi, mortificarsi e, attraverso l’auto-ostracizzazione, espiare una colpa che la protagonista avverte sulle spalle.
Solo nello sguardo dell’altro, quando vi coglie un desiderio sincero, autentico, Marta si vede per la prima volta. «Ho paura», confessa. E quella paura sta tutta nelle molestie che le donne subiscono e subiscono a ogni passo, che non sono «una cosa che sta nella testa. È una cosa che ti si scrive nella carne. Che ti scrivono sulla carne. Senza chiedere il permesso, senza essere nessuno, senza poterselo permettere, uomini da niente, un giorno, così, a caso. A te. A chiunque. Senza un motivo preciso e dunque senza possibile difesa». Una cosa che succede a chiunque, anche alle ragazze obese, “culone”, poco desiderabili…
Marta riesce a vedersi e a percepirsi donna, spogliandosi del grasso che assume la consistenza di una coperta; si riappropria della propria identità, del proprio essere; solo nel momento in cui il suo essere obesa – e quindi non meritevole di esistere – viene ridimensionato e ridotto a un: «cosa c’entra».
La scusa viene esplicitata, il grasso non è più un muro dietro cui nascondersi. Quella frase – senza interrogativi – deflagra il mondo di Marta, il suo apparato di segreti, paure e bugie. Cosa c’entra l’essere grassi col vivere? Cosa c’entra il peso col negarsi la possibilità di essere felici? Cosa c’entra con l’essere sé?
Finalmente, Marta arriva a domandarselo. E decide di ripartire da zero, o meglio, di ripartire da sé, da uno specchio che le restituisce un’immagine disfatta e la porta a chiedersi: «Perché non mi sono fermata un attimo prima?», nel trionfo totale della volubilità.
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