Il nome di Francesca Mattei ha cominciato ad apparire prima nel circuito della litweb. I suoi racconti, sempre caustici, decadenti e affilati, hanno trovato casa in SPLIT, Narrandom, Malgrado le Mosche, Verde Rivista… nell’antologia Human di Moscabianca e in Vite sottopelle. Racconti sull’identità di Tuga Edizioni. Vista la sua produzione, non c’è da stupirsi se i suoi racconti hanno trovato casa presso Pidgin edizioni in quello che è a tutti gli effetti il suo esordio letterario: Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa.

Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa: la destrutturazione della sicurezza

Una casa composta da tante stanze in cui, proprio al centro, Mattei appicca il fuoco. Ecco come si potrebbe descrivere in breve l’antologia Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa: un incendio in un luogo sicuro (la casa) che si propaga lento, ma inesorabile. E gli abitanti? Gli inquilini non si accorgono del pericolo, anestetizzati dal fumo, e continuano a inspirare a pieni polmoni l’aria tossica e malsana. Rifuggono l’ossigeno.

Allo stesso modo, i protagonisti dei racconti non prendono iniziativa per salvaguardare la propria stabilità. Anzi, si nutrono e crogiolano nelle proprie dipendenze: alcol, droghe, sesso, farmaci… tutto ciò che può regalare un momento di oblio e disconnettere dal reale, annullare il pericolo intrinseco dell’esistenza è il benvenuto.

La giovinezza dei personaggi, lungi dall’essere uno stimolo all’azione, è addirittura un incentivo all’abbandono e al degrado. Forti dell’energia dell’età delle possibilità, la scelta da propositiva si fa decostruttiva. La mente, è da rifuggire. Il corpo – la casa -, un elemento da destrutturare. La decomposizione delle prospettive va di pari passo con l’annullamento della coscienza e con la ricerca costante di un punto di fuga dalle responsabilità, dalla vita, dall’essere.

Elogio dell’ignavia

Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa è un libro estremista-epicureo: la ricerca del piacere e dell’inazione sono i fulcri che spingono i personaggi ad abbandonarsi agli eccessi e al degrado. In un roteare di periferie, comportamenti al limite e ignavia nell’affrontare le situazioni, i protagonisti dei racconti osservano, studiano, cesellano con sguardo affilato il mondo e lo scavano fino all’osso. Eppure, non è un guardare affamato, bramoso. Anzi, la tensione desiderante si crogiola nella putrescenza dell’inottenibile. Guardare, non toccare. Non provarci neanche, perché tanto quelle gioie, quelle aspettative, non appartengono al mondo delle possibilità, bensì a quello dell’irraggiungibile.

A che pro, allora, muoversi verso l’oggetto del desiderio? A che pro faticare, sudare, spendere tempo ed energie per un sogno irrealizzabile?

Di fronte alla scelta kierkegaardiana tra l’out-out, i personaggi di Mattei scelgono di restare nel mezzo: non rinuncia, non scelta. In un equilibrio precario della nevrosi che non diventa mai esaurimento. Non si definisce.

In questa prospettiva di arrendevolezza, l’intera raccolta può risultare ripetitiva. Le dinamiche sono le stesse per i vari racconti, i personaggi attori di uno scenario riciclato. Eppure, questa ripetizione dell’ignavia è la calce su cui si reggono i testi. Una malta precaria, fragile, essiccata, pronta a frantumarsi alla prima intemperia, lasciando solo vuoto e macerie dietro di sé.

Giulia Manzi