«Non ho riscritto il libro», mente spudoratamente Jorge Luis Borges nel prologo di Fervore di Buenos Aires (Adelphi). Sì, mente, perché l’esordio del poeta argentino è stato soggetto a una continua riscrittura, durante tutta la vita, da parte dell’autore.

Ma andiamo avanti, guidati dallo stesso Borges, che ci rassicura sul fatto lui e il ragazzo, che tra il 1922 e il 1923 stende poesie dalla bellezza innaturale, siano la stessa persona, smossi dagli stessi obiettivi e consapevoli del mondo che li circonda e delle sue mancanze. Due persone, una stessa essenza, che viene manifestata nei vari lavori di Borges di cui Fervore di Buenos Aires «prefiguri tutto quel che avrei fatto in seguito. Per ciò che lasciava intravedere, per ciò che in qualche modo prometteva».

Ciò nonostante, le poesie della raccolta sono state rimaneggiate in continuazione. E anche se Borges ci rassicura che «ne ho mitigato gli eccessi barocchi, ho limato asperità, ho cancellato sentimentalismi e vaghezze», ma non lo ha riscritto, noi lettori dobbiamo provare a immaginare i testi con ancora quegli errori dovuti all’inesperienza e a un certo fervore giovanile che non prevedeva limature o riscritture.

Fervore di Buenos Aires: la censura del sé

In qualche modo, Borges vecchio ha censurato se stesso, celandoci la sua natura intemperante di ragazzo, forse per volontà di rinchiuderla in un luogo privato, forse per vergogna, forse per un tenero pudore intellettuale verso se stesso.

Tuttavia, quest’opera di riscrittura rientra nella concezione del poeta secondo cui la poesia deve rispondere a una concezione dinamica della realtà. La vita va riscoperta e osservata «come un proteiforme divenire… una rapida teoria carnevalesca fatta di sofferenze e di godimenti» in quanto «si divora, sorge e rinasce a ogni istante».

In questa logica del divenire come flusso vitale, Fervore di Buenos Aires, con le sue continue riscritture, è l’emblema della poetica borgesiana: un in itinere costante, dove ritmo e metafora s’intrecciano per creare una città tanto più reale, quanto immaginifica.

Il fervore assente nei testi (poiché il poeta si rifiuta di descrivere la Buenos Aires turistica, ricca di movida e brulicante di una vita moderna e frenetica) si palesa tra le righe con una potenza emotiva di raro impatto.

Non è il centro metropolitano della città argentina il fulcro della raccolta, bensì ciò che si trova agli argini, nei vicoli dell’arrabal, la periferia, che conserva in sé l’essenza dell’identità criolla, dell’uomo.

Ritmo e metafore, la scelta attenta delle parole e la cura di ogni singolo passaggio per suscitare nel lettore più emozioni possibili, creano una prospettiva brulicante, coesa e fluida. Come un fiume, le parole di Borges scorrono sulla pelle, permeano tra i pori e s’insinuano nell’anima, in una miscela di colori, profumi e suoni di una terra al di là del mare.

La Buenos Aires di Borges è così Borges stesso. Il suo percorso, la sua storia, il suo eterno divenire confrontato con quello di tutti noi. Per questo Fervore di Buenos Aires è sì la sua opera prima, ma anche l’ultima: perché le continue modifiche hanno trasformato la silloge in un film della vita di un uomo, così identificato nella sua poetica da non lasciarla mai andare.