Facce di colore, di Nafissa Thompson-Spires (Edizioni Black Coffee) parte dallo spunto offerto all’autrice dalla serie di sketch The Heads of the Colored People, apparsa fra il 1852 e il 1854 sul quotidiano The North Star.

Da questi bozzetti, l’autrice tratteggia con umorismo e irriverenza l’identità nera dell’America post-razziale. Tratteggia, sì, in qualche modo abbozza su fogli spessi e ruvidi una serie di vignette disegnate a parole, in cui si affermano come ingombranti padroni i tratti di una comunità imborghesita, opulenta, distaccatosi dalle origini non troppo lontane di un passato di schiavitù, eppure ancora terrorizzata da essa e dall’accettazione da parte della comunità bianca.

Facce di colore: tra bianco e nero

Diventa infatti imprescindibile analizzare il testo dal punto di vista della dicotomia pelle nera/pelle bianca. I protagonisti stessi girano attorno al concetto di nerezza, che già abbiamo conosciuto con Friday Black, di Nana Kwame Adjei-Brenyah (SUR), ed esprimono se stessi in virtù di essa. Ciò nonostante, in Facce di colore i personaggi operano un processo a metà tra il conformarsi ai bianchi e il recupero delle proprie origini. Abbiamo così delle mamme Trimalcione, piene di dottorati ma sufficientemente meschine da scambiarsi lettere al vetriolo tramite le cartelle delle figlie, uniche bambine nere della scuola. E da lì: ragazze bulimiche schiacciate dall’egocentrismo materno che cercano di non essere “troppo bianche” e recuperare la propria nerezza, pur rifiutandola. E ancora: vittime della mitomania dei likes; una ragazza affetta da devotismo, giovani disabili che vogliono evitare una lettura sbagliata sulla comunità nera della Louisiana…

I racconti evidenziano con straordinaria abilità narrativa le dinamiche che colgono una comunità “imborghesita”, sfuggita dal ghetto e che al ghetto non vuole tornare. Ma che di quel ghetto prova una strana nostalgia, un richiamo atavico e identitario.

Il corpo come narrazione

Protagonisti assoluti dell’opera di Nafissa Thompson-Spires, i corpi. Corpi grassi, corpi secchi, corpi voluttuosi, corpi imbottiti di psicofarmaci da baby blues, corpi mutilati, squarciati, dilaniati. Una danza di carne ed emozioni che da essa dipendono e rifuggono. Le facce di colore diventano simbolo di un’umanità che esprime il sé attraverso l’immagine fisica. Il corpo è una tela – frammentaria – su cui abbozzare se stessi e modellare l’io; un manifesto della proiezione della comunità nera nella società moderna. D’altronde, riflette l’autrice nel primo racconto di Facce di colore (una piccola perla di metanarrazione):

Cos’è una narrazione corale nera se non il racconto di un solo grado di separazione, un abbozzare lo stesso dolore più e più volte, aprendo un varco tra così tanta carne nel tentativo di trarre nuove conclusioni, pur sapendo che il solo desiderarle non le renderà tali?