“Se credi che quel pensiero sia tuo, se in generale sei convinto che tutti i bei pensierini che ti percorrono siano tuoi, ancora una volta sei un idiota”.
Il pensiero, la multidirezionalità, la dispersione dell’io. Un cocktail paradossale tra Fichte, Kant e Cartesio, in cui i confini dell’autocoscienza divengono labili e intangibili: questo è l’esordio di Caro Gervasi, L’espropriazione, edito Eris Edizioni.
Durante un viaggio in treno, il protagonista e voce narrante incontra Carla, sua ex compagna di scuola ed ex fidanzata. A causa di un contatto troppo diretto, si trova a vivere l’esperienza psicosomatica dell’espropriazione, ovvero l’annullamento dell’Io in un processo di fusione trascendentale col tutto. Quando si riprende, è a casa di Carla, dove incontra i suoi “pazienti” e ne ascolta le storie che li hanno condotti a desiderare il superamento dei propri confini individuali.
Attratto dalla presenza ritrosa e magnetica di Carla, il protagonista percepisce gli effetti dell’espropriazione, senza però esserne direttamente influenzato, finché abbandonare la casa non sembra diventare impossibile.
L’espropriazione dell’Io e l’espansione del sé
Se dagli albori della filosofia l’Io è stato considerato il momento in cui il pensatore è allo stesso tempo soggetto e oggetto del pensiero, nel corso del tempo l’attenzione si è spostata dall’interiorità personale all’apertura verso il mondo. Per conoscere sé stessi e articolare il pensiero, bisogna espandersi verso l’estero, aprirsi all’altro da sé.
L’Io, infatti, viene definito da Fichte come elemento infinito che, quindi, non può essere oggetto di conoscenza, ma è comunque il principio che rende possibile la conoscenza. Per comprendere razionalmente la propria autocoscienza, deve rinunciare alla coscienza stessa.
Questo processo di ricerca del sé attraverso la disgregazione dei confini dell’Io è il fulcro al centro dell’opera di Caro Gervasi. L’espropriazione non è solo il titolo e la pratica attuata da Carla all’interno della novella, ma anche un percorso mistico-filosofico che conduce alla pura estasi.
Ho pensato che era stato uno sballo, una cosa fuori dalla grazia di dio
Afferma uno degli ospiti di Carla, descrivendo la propria esperienza. Andare fuori di sé, proiettarsi all’esterno è al tempo stesso un tentativo di espandere la propria coscienza e di annullarla, lasciare indietro quella parte oscura del sé che atterrisce e di cui ci si vuole dimenticare.
In uno spietato gioco di equivalenze, Carla espropria i propri clienti dalla dimensione individuale, creando un grado di prossimità pressocché infinito con il tutto. Un tutto in cui è facile perdersi, ed è questo l’obiettivo di chi usufruisce del processo d’espropriazione: annullarsi in virtù di un’empatia alveare, in cui si può restare distaccati dall’emozione individuale pura. Provare tutto equivale a non provare nulla, raggiungendo così la sospirata atarassia, l’imperturbabilità.
Il processo di espropriazione e la rinuncia
Caro Gervasi mette in scena una narrazione drammatica nella sua apparente staticità. In un susseguirsi di dialoghi, filtrati dalla prima persona, si dipana un ritmo allucinogeno, in grado di proiettare l’esistenza dentro e fuori ai personaggi e al lettore. Affondando nella profonda interiorità e nel desiderio di fuga degli attori dell’opera, il lettore si trova davanti a un disperato confronto con sé stesso. Rifiuterebbe l’espropriazione, in caso ne avesse la possibilità? Oppure vi si adagerebbe? E per quali motivi? Una maggiore espansione del sé, oppure un desiderio del distacco?
L’ansia desiderante dell’uomo si traduce, in L’espropriazione, nella sua distorsione più pura: l’oggetto del desiderio non è più oggetto in quanto tale, bensì è la rinuncia alla materialità, al vivere nel mondo e per il mondo.
In pochissime pagine, Gervasi opera un cammino filosofico di rara potenza, che si chiude con l’atavico interrogativo dell’eterno presente, della perdita dei traumi del passato e della rinuncia al futuro: quale grado di prossimità siamo, effettivamente, capaci di sopportare?
Giulia Manzi
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