Il diavolo veste Prada è l’esordio della giornalista e scrittrice statunitense Lauren Weisberger (Piemme), uscito nel 2003 quando l’autrice aveva ventisei anni. Il romanzo diventa un bestseller, e nel 2006 dà origine a una famosissima trasposizione cinematografica dallo stesso titolo, con Meryl Streep, Anne Hathaway e Stanley Tucci.
Il romanzo narra le avventure di Andrea, giovane promessa del giornalismo, che si trova a lavorare per l’importantissima rivista di moda Runway. Sembrerebbe il sogno di qualunque donna (“chiunque ucciderebbe per questo posto”, sostengono ripetutamente gli altri personaggi), non fosse che il fashion non è fra gli interessi della protagonista. E questo è il meno! Il più grosso problema di Andrea è costituito dal suo capo, la celeberrima Miranda Priestley, una donna ruvida, con nessunissima considerazione per gli altri, pretenziosa e stakanovista.
La vita di Andrea diventa un incubo di telefonate e richieste impossibili, commenti crudeli da parte del suo capo ma anche da parte delle colleghe, molto più a loro agio di lei nel campo della moda. In tutto questo, la sua vita sentimentale va piano piano rovinandosi, e la sua migliore amica Lily precipita nel tunnel dell’alcol. Andrea è troppo presa dal lavoro per correre ai ripari, e lo scoprirà nel modo peggiore: mentre è in viaggio a Parigi, al seguito di Miranda, Lily ha un brutto incidente.
Andrea imparerà così a stabilire delle priorità, nella sua vita, per non diventare una persona egoista e profondamente sola come Miranda.
Il diavolo veste Prada: una trasposizione fin troppo riuscita
Chiunque abbia visto il famoso film si sarà reso conto che, fatto salvo l’alcolismo e l’incidente di Lily, la trama sembra seguire più o meno le stesse dinamiche.
Purtroppo, si tratta di uno di quei rari casi in cui la trasposizione filmica risulta migliore del romanzo da cui è tratta. Sarebbe ingiusto sostenere che il difetto del romanzo Il diavolo veste Prada sia non essere il film, dato che il carisma di Meryl Streep ha certamente fatto tanto per il suo successo. Ma è indubbio che l’esistenza del film, e le piccole libertà che si è preso con la trama, mettono in luce i difetti del romanzo.
Il diavolo veste Prada appartiene al genere Chick lit, traducibile con “letteratura per gallinelle”, “letteratura per sciacquette”: romanzi molto leggeri con una trama spesso romantica. Per quanto il termine sembri offensivo, si adatta benissimo al romanzo. Il diavolo veste Prada è scritto in modo abbastanza superficiale, i personaggi non sono molto approfonditi ma solo abbozzati, il concatenarsi degli eventi è vago e un po’ casuale. Il film ha fatto un lavoro migliore a tratteggiare la protagonista, il suo fidanzato, la collega di lavoro, la stessa Miranda.
Rendendo Miranda un personaggio con cui è possibile empatizzare, si fa capire allo spettatore perché Andrea si sia fatta trascinare all’interno delle dinamiche della redazione, perdendo sé stessa. Nel romanzo, però, non accade nulla di tutto questo.
La protagonista non perde occasione di criticare Miranda, sbuffa ogni volta che lei le impone qualcosa. Per quanto siano reazioni umane, è difficile mantenere l’empatia con la protagonista: il romanzo sembra un resoconto delle terribili giornate lavorative raccontato da una vostra amica. Uno sfogo che siamo tutti ben lieti di sopportare, data l’amicizia, ma non esattamente qualcosa di entusiasmante da leggere in un libro.
Andrea critica, protesta, polemizza tutto il tempo, risultando lamentosa al lettore. Non appassionandosi mai alla moda, né provando altro che risentimento nei confronti di Miranda, è difficile capire perché cominci a perdere sé stessa.
Un altro esempio di debole storytelling risiede nel punto di svolta, quello che fa sì che Andrea perda le staffe e abbandoni Miranda a Parigi.
Nel riassunto esposto precedentemente si ha l’impressione che Andrea, saputo dell’incidente della sua amica, faccia le valigie e torni subito a casa, pentita di aver trascurato il suo problema con l’alcol. In realtà, la reazione di Andrea è di non tornare affatto, preferendo accompagnare Miranda nei suoi impegni e venendo lodata per questo (situazione che nel film è rispecchiata dalla scena in cui Andrea licenzia Emily e parte per Parigi al suo posto). Ma poco dopo, Miranda fa saltare i nervi alla nostra protagonista, pretendendo dei biglietti aerei per le sue figlie che sono impossibili da procurare: Andrea perde le staffe, insulta Miranda e le dà il benservito.
Naturalmente la reazione di Andrea è molto carburata dal senso di colpa nei confronti di Lily e dalla volontà di tornare a casa da lei, ma dal punto di vista della costruzione narrativa, è un evento debole e poco significativo. Nel film il personaggio interpretato da Stanley Tucci, di cui Andrea diventa amica, viene tradito da Miranda in modo che lei possa mantenere la direzione di Runway in barba a un complotto che era stato ordito ai suoi danni. Vedere un caro amico, che ha sempre dato anima e corpo per la rivista e per Miranda stessa, venire trattato in questo modo, fa scattare la scintilla in Andrea: lei non vuole diventare così. Non vuole tradire i suoi amici più cari, diventare una persona così affamata di potere da non avere principi e non provare gratitudine.
La scarsa coesione della narrazione rende molto verosimile l’idea che l’autrice si sia ispirata alla sua storia personale: anche lei ha lavorato, per un periodo, per la rivista Vogue America. Una simile esperienza può essere carburante per un romanzo interessante, purché non si ceda alla tentazione di renderlo un lungo e polemico resoconto delle proprie disgrazie, mescolato a un po’ di fantasia.
Il diavolo veste Prada è un romanzo molto acerbo. Se fosse rimasto in gestazione per più tempo, forse l’autrice avrebbe avuto modo di elaborare in modo più maturo le proprie esperienze, tramutando un ripetitivo susseguirsi di aneddoti vagamente collegati fra loro in una storia significativa, portata avanti da personaggi reali e psicologicamente approfonditi.
Giulia Taccori
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