Irrequieto e duplice: parole che scivolano lungo la prosa di Elvis Malaj, nel suo libro d’esordio Dal tuo terrazzo si vede casa mia (Racconti edizioni). Un’antologia di racconti che spicca nel panorama letterario odierno, per le sue caratteristiche insolite, tanto da valere all’autore italo-albanese l’ingresso nella Dozzina del Premio Strega 2018.

Dal tuo terrazzo si vede casa mia

Elvis Malaj è un maestro del doppio. Se, in letteratura, questo tema è stato fulcro di un’ampia gamma di capolavori che spazia dal Menecmi plautino a Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, per giungere a un nostranissimo Uno, nessuno e centomila, in Dal tuo terrazzo si vede casa mia si opera una modernizzazione del dualismo ontologico classico, col suo spostamento dalla psicologia alla sociologia, fino al principio d’integrazione.

I protagonisti della raccolta di Elvis Masaj, infatti, sono “doppi” (salvo rarissime eccezioni, come in La vergine Maria) in quanto a cavallo tra due mondi: l’Albania d’origine e l’Italia d’approdo. In questo carosello di lingue, usi e costumi, i personaggi si muovono da una riva all’altra: chi nel tentativo di nascondere la propria provenienza, chi nell’estremizzazione della propria cultura, chi desideroso di un’integrazione vera, che non renda dimentichi delle origini, pur accogliendo il nuovo.

Il doppio si fa, così, elemento sociale. I protagonisti di Dal tuo terrazzo si vede casa mia sono duplici per lingua, per modi di essere, per cultura. Significativa, a questo proposito, è la miscelazione linguistica nei dialoghi di italiano e albanese che Elvis Malaj esprime con la naturalezza dialogica del proprio vissuto.

In ogni racconto, emergono così tutti i problemi taciuti (o forse volutamente ignorati) di coloro che vivono a cavallo tra due realtà: le difficoltà della lingua, il pregiudizio, il razzismo “all’italiana” (“Non sono razzista, ma…”) che torce l’anima più che la pelle, il desiderio di appartenenza e la doppiezza di sentirsi, come novelli Peter Pan nei giardini di Kensington: “Né questo, né quello”.

Alla base, un principio universale di umanità: il bisogno di sentirsi parte di un insieme più grande, di appartenenza, di identità.

L’identità rubata. Elogio dell’inquietudine

La necessità di questa, dell’identità, genera così l’inquietudine e l’irrequietezza dei personaggi di Dal tuo terrazzo si vede casa mia. Li permea uno ad uno, ne mette a nudo le debolezze e li rende autosabotatori del proprio io, anche nei racconti ambientati in Albania, dove la dualità dell’immigrazione è meno presente.

I protagonisti delle diverse storie sono, difatti, impegnati nella ricerca del sé, di una propria definizione. Il mondo attorno a loro li ha frammentati, resi incerti del futuro; la perdita delle radici e il tentativo disperato di recupero delle stesse ha generato un vuoto di passato e un’insensatezza di presente, a cui si oppongono, o si abbandonano.

Li troviamo, così, frenetici nel loro sguazzare per restare a galla in una realtà che tenta di annichilirli, di cancellare il principio d’identità. Alcuni reagiscono incasellandosi nello stereotipo, perché è più semplice proporsi secondo gli schemi prefissati da terzi; altri minano sé stessi nel tentativo disperato dell’omologazione; altri ancora, alla fine, cercano di vivere la propria identità attraverso fantasie e desideri, ambizioni e sogni.

Ne è la prova il racconto più forte, che offre anche il titolo della raccolta: Dal tuo terrazzo si vede casa mia. Il giovane protagonista, Kastriot – studente d’origine albanese della facoltà di Fisica all’inizio, di Filosofia poi, e aspirante scrittore – intreccia un’ambigua relazione con la figlia della vicina, Veronica. La realtà di questo rapporto, fondato su un utilitarismo da parte di entrambi (più materiale quello di lei, più pindarico quello di Kastriot), si miscela col racconto scritto dal protagonista e con la sua ricerca costante di ispirazione. Obiettivo, questo, che acquista le fattezze del viaggio dell’eroe, in una coinvolgente ed estrosa metanarrazione, fino alla conclusione aperta della storia.

Perché la vita non si conclude mai con la parola “fine”.

Giulia Manzi