Ci sono momenti in cui il tempo sembra scorrere in modo alieno, come le maree che turbinano sotto le onde. Nei gorghi nati dal loro intreccio, si rimescolano frammenti di passato e di presente, scarti di conchiglia che si depositano sulla spiaggia della memoria e chiedono di essere ricomposti.

Così fa Marta Barone, nel suo esordio narrativo Città sommersa (Bompiani), candidato al Premio Strega: incolla pezzi di ricordi, propri e altrui, nel tentativo di recuperare un’immagine, un qualcosa che la riallacci all’uomo e non al padre.

Il tentativo di riappropriarsi di un brandello di vita s’intreccia con l’ambizione alla scrittura. Nel corso di Città sommersa, il padre di Marta e L.B., il giovane rivoluzionario, democratico fino alla fine, si uniscono e si scindono alla stessa velocità dello scorrere del tempo. A questo modo, l’intero libro è una corsa contro l’orologio, nel tentativo di strappare ancora minuti, secondi e giorni al passato.

Il padre, l’uomo e il personaggio

Città sommersa è la storia di un padre, di un uomo, e di un personaggio. Che sono la stessa persona, e al tempo stesso non lo sono, perché Marta, nel suo tentativo di realizzare un collage delle varie facce di Leonardo Barone, cerca di distinguere bene gli uni dagli altri.

Così abbiamo un padre pavido, affettuoso in maniera occasionale, e profondamente legato e orgoglioso della figlia, ma incapace di dimostrarlo. Un padre con cui la protagonista ha tanti, tantissimi irrisolti, a causa dell’uomo che era e che non conosce.

Ed è dall’uomo che parte la storia: lo sconosciuto si fa strada a poco a poco nel presente di Marta, dopo la morte del genitore, e s’insinua nella sua mente. In qualche modo, la spinge affinché racconti la storia di una vita che s’intreccia alla sua. Nel tentativo di far combaciare il padre e l’uomo, nasce il personaggio: L.B., la cui presenza s’insinua negli interstizi e nelle pieghe della memoria, tra gli anni di piombo, le lotte di partito e amori mai portati a compimento.

Solo le rovine

Da qui, Marta Barone diventa non più figlia, ma scrittrice. E in quanto scrittrice lucida, leviga il materiale grezzo e lo restituisce scoperchiato, restituendo i dati, i fatti, le vicende degli anni ’70, a una memoria collettiva e familiare.

Eppure, il resoconto storico, sebbene superbamente narrato, scivola passivo rispetto all’urgenza del recupero della figura del genitore-uomo. Tutte le scene tra Marta e il padre, i ricordi restituiteli da amici e vecchi compagni, hanno una carica emotiva sconvolgente. Perché c’è amore, c’è odio, c’è dolore, c’è indifferenza e c’è la rabbia. La rabbia cieca verso un animo rimasto sommerso che ha costretto a tuffarsi nelle acque del tempo per poterlo scoprire. La vera città è inafferrabile, perché l’unica cosa che il mondo restituisce sono rovine. Il resto, giace sommersa in fondo al mare.

La Città sommersa: le figlie sospese

(con qualche sentimentalismo personale)

Era il 2013 quando mi ritrovai a scrivere la biografia di mio padre. Nessuno me l’aveva chiesta, né avevo ricevuto un lascito genitoriale. Ricordo però che avevo interi ricordi a cui attingere: nove anni pieni e le narrazioni di mia madre a cui papà aveva confidato gran parte della sua vita. Eppure, in quel libro, mancano tanti piccoli frammenti che non sono riuscita a recuperare. Frammenti di un padre che ho cercato disperatamente di tramutare in uomo, per poterlo amare e odiare senza il filtro della me bambina.

Conosco bene l’urgenza dell’incontro attraverso i ricordi altrui. Soprattutto quando si parla di genitori tanto amati, celebrati e di cui tutti serbano piacevoli memorie. Genitori scomodi, di cui è difficile essere figlie, la cui ombra ti segue sempre e ti soffoca, finché non noti come si sovrapponga alla tua e i contorni dissimili coincidano.

Ecco, nonostante i differenti presupposti, le pagine di Città sommersa mi hanno parlato. Ho calpestato la stessa strada di Marta, in una cerca disperata e cavalleresca: il padre come missione, la memoria come mandante, l’uomo come Santo Graal.

Eppure, come in tutte le grandi cerche, non c’è la ricompensa finale: è il cammino percorso la vera ricchezza. In questo, noi figlie sospese siamo dantesche Ulisse, condannate a fallire per seguir “virtute e canoscenza“. Non avremo mai un’immagine completa, ma abbiamo imparato a intrecciare foto, frammenti di lettere, frasi interrotte a metà, in bilico quanto noi, e a compensare i pezzi mancanti del puzzle costruendo personaggi sull’uomo.

E questo, in qualche modo, ce lo facciamo bastare.

Giulia Manzi