Il ballo delle pazze (Le bal des folles), pubblicato da Éditions Albin Michel nel 2019, è il romanzo d’esordio della scrittrice francese Victoria Mas, vincitore del premio Stanislas du premier roman. Il libro riscuote subito un grosso successo. In Italia è distribuito da Edizioni e/o nel 2021.

Il ballo delle pazze: la spettacolarizzazione del dolore

Siamo nel 1885, a Parigi. La narrazione oscilla inizialmente fra l’ospedale Salpêtrière, in cui lavora la capo infermiera Geneviève, e la lussuosa casa della borghese Eugénie.

La prima svolge il suo lavoro con rigore, senza dare confidenza alle pazienti. Da vent’anni, l’ospedale è sotto la direzione dell’illuminato alienista Charcot, con le sue nuove e innovative tecniche per lo studio e la cura delle pazienti isteriche. Da prigione per mendicanti e inferno sulla terra, il Salpêtrière si è trasformato in un moderno centro di ricerca, in cui le pazienti vengono fatte esibire nei loro attacchi isterici indotti a fini di studio. Già da qui si può intuire la spettacolarizzazione del loro dolore, la vena di crudeltà e degradazione che permea un ambiente in cui le donne dovrebbero sentirsi (e, in una certa misura, si sentono – perché la percezione umana non è mai semplice e lineare) al sicuro.

Eugénie, al contrario di Geneviève, non ha affatto una strada tracciata e lastricata di certezze. Alle prese con un dono segreto, quello di parlare coi morti, cerca il proprio posto nel mondo. Vorrebbe fuggire dalla casa paterna e conoscere altre persone che possiedono o studiano le sue capacità.

Purtroppo, le strade di Geneviève e di Eugénie si intersecano, quando la seconda viene giudicata “scomoda” dalla sua famiglia proprio a causa del suo dono. Viene tradita, raggirata, e imprigionata nel manicomio. La presenza di Eugénie avrà un grosso impatto sulla percezione che Geneviève ha del mondo, ribaltandola.

Un’opera matura, ma non nello stile

Il ballo delle pazze è caratterizzato da una certa maturità. Non sorprende che l’autrice avesse già passato i trent’anni al momento della stesura. Lo stile è forse un po’ acerbo e il romanzo non manca di pecche: il ritmo è un po’ casuale; la gestione del punto di vista traballa, passando da un personaggio all’altro sorprendendo il lettore; certi personaggi vengono trattati come protagonisti all’inizio del libro per poi essere narrativamente sacrificati sul finale. La brevità del romanzo non permette un soddisfacente dipanarsi dei diversi archi narrativi: solo Geneviève e, a sorpresa (considerato il loro status di personaggi secondari), Louise e Theophile ne hanno uno. Anche Eugènie ha un accenno di crescita, il momento in cui comprende cosa davvero vuole fare del proprio potere e la ragione per cui lo possiede, ma è un passaggio molto trascurato, non adeguatamente sbrogliato e discusso.

La maturità di Victoria Mas come autrice non la si ritrova nello stile di scrittura (del resto, gli esordi anche dei “grandi” sono caratterizzati dalle imperfezioni e dalle ingenuità), ma dalle tematiche affrontate, dalla complessità di certi personaggi. Geneviève, una su tutti, che scopre la propria strada e la propria serenità in un modo agli altri inconcepibile, abbandonando una vita fatta di certezze per una vita fatta di dubbio.

Aveva letto e assimilato tutti i libri di medicina che c’erano in casa e grazie a loro aveva finalmente trovato la propria fede. Avrebbe creduto nella medicina. Sarebbe stata devota alla scienza. Quello era il suo credo. Non aveva dubbi: avrebbe fatto l’infermiera.

Il suo cambiamento è un totale rovesciamento di tutte le sue credenze:

La fede incrollabile in un’idea porta al pregiudizio. Ti ho già detto quanto mi sento serena da quando ho dei dubbi? Proprio così, non bisogna avere convinzioni, bisogna poter dubitare di tutto, delle cose e di sé stessi. Dubitare.

Le certezze l’avevano portata all’anaffettività, all’isolamento, alla deumanizzazione. Il dubbio la porta alla prigionia fisica, ma alla libertà morale ed emotiva.

La vita dipinta da Victoria Mas non è facile, non è coerente e razionale: è complessa, sfaccettata, vaga, in antitesi con uno stile scrittorio asciutto e conciso, senza oscurità né orpelli. Le brutture sono dipinte senza morbosità, ma anche senza timore, con il fare clinico che userebbe lo stesso dottor Charcot per parlare delle sue pazienti.

Un bel romanzo, che fa ben sperare per le prossime opere dell’autrice francese.

Maria Giulia Taccori