Dopo che hai detto di no, un uomo che fa le moine per convincerti a cambiare idea diventa intollerabile. Anche se lo fa con educazione, o gentilezza, ignora le intenzioni espresse in modo chiaro. Significa: La tua scelta di fatto non conta. A contare è il mio desiderio, e non voglio sentirmi in colpa per averti costretto. Non puoi ripensarci?

Le moine sono un atto di codardia, e di violenza. Quando cambi il no di una persona in un sì facendo le moine, le hai rubato qualcosa che non ti appartiene.

Leggere Atti di sottomissione, di Megan Nolan (NN Editore) è un’atto disperato di presa di coscienza. Sul desiderio femminile, sulla sua trascuratezza, sul bisogno di amore disperato per riconoscersi nello sguardo dell’altro. Dalle prime pagine, Megan Nolan trascina in un racconto autobiografico sulla tragica ricerca dell’Amore, ma non del sentimento, bensì del bisogno di essere innamorati.

La volontà di disperdersi nell’altro

L’Amore è una droga, un generatore di endorfine, una dipendenza per sentirsi migliori, per avere la speranza di diventare migliori. E ci avvisa, di questo, sin dall’incipit: La prima volta che l’ho visto, mi ha fatto una gran pena.

L’imput dell’Amore nasce così dalla sofferenza, ma anche – per significato etimologico – dal castigo. Quello tra la protagonista e Ciaran è infatti un amore castigato, più vicino a un martirio che a una relazione. L’autrice/personaggio affoga, con una volontà lucida annichilente, nella personalità del compagno, un istrionico manipolatore che sfrutta il bisogno di donarsi della protagonista per sopperire alle proprie insicurezze relazionali.

Si genera così un filo a doppia lettura: entrambi si amano (a modo loro), entrambi si feriscono (a modo loro) e il conflitto diventa grigio, privo di giustificazioni per entrambi, in cui l’unica cosa che spicca è la reciproca dipendenza. Per lei immediata, suscitata dal bisogno di castigare con l’amore per un uomo anaffettivo la propria persona, per lui costruita dalla comodità di un ambiente familiare e accogliente, dove è il piccolo re del proprio spazio e dove nulla contraddice la sua volontà.

Il binomio sottomissione/dominazione si disgrega, così, in una relazione dai confini labili e contorti, dove il desiderio del maschio è fatto proprio dalla femmina e dove questa impone il suo amore totalizzante, cultistico. Eppure, in quest’amore tossico, disperato, avvolgente, spicca la volontà di dispersione del sé della protagonista, la coscienza lucida e consapevole della propria condizione che è cercata, voluta, addirittura desiderata.

Lui mi aveva privato di una parte di me, ma anche io stavo prendendo qualcosa da lui. Gli stavo togliendo la capacità di vivere senza di me. (…) un giorno, nell’immediato futuro non sarebbe più stato capace di ricordare come avesse fatto finora senza di me, e non sarebbe stato capace di immaginare come farlo di nuovo.

Sta qui, la chiave della relazione con Ciaran, intellettuale bellissimo, capace di dosare affetto e indifferenza: nel rendersi, in un atto disperato della volontà, codipendenti. Perché la protagonista sente il bisogno di riplasmarsi nella donna che lui desidera, in una creatura degna d’amore, lei che per prima non si ama.

Un’enorme paura mi gonfiava il petto mentre me ne stavo lì rannicchiata stringendomi il corpo, il mio corpo, a cui mi sembrava andassero attribuite le colpe di tutto quello che mi succedeva. In quei momenti sapevo che se fossi riuscita a diventare sempre più piccola, sempre più invisibile, se fossi riuscita a rimpicciolirmi, allora mi avrebbe amato del tutto e veramente; e che chiunque altro – oh, tutti – lo avrebbero fatto.

Atti di sottomissione, Acts of desperation, e atti mancati

Nonostante la scelta ottimale di Tiziana Lo Porto di tradurre “desperaction” con “sottomissione“, si viene privati della sfumatura generatrice delle azioni della protagonista: ogni suo atto di sottomissione è, infatti, al contempo folle e disperato, di una disperazione che non si traduce con semplice masochismo, ma la permea nella sua totalità.

Vive tra gli eccessi, in un atto disperato di autodistruzione e di sentirsi viva; ama uomini sbagliati nella ricerca disperata di vedersi riconosciuta e di essere amata. La sottomissione è solo un altro atto di disperazione, nella spasmodica ricerca di un equilibro che, non trovatolo al proprio interno, viene identificato nello sguardo altrui, nel compiacimento del distacco dal corpo.

Un corpo amato, usato, odiato. Abusato dalla protagonista stessa che, con magistrale autoanalisi, ci guida nel suo abisso di inadeguatezza, di alcolismo, di disordini alimentari, di relazioni in cui la ricerca di rudezza da parte dell’uomo è catartica liberazione dal peso della carne e il sesso – consensuale, non consensuale, fittizio, passionale… – diventa una porta d’accesso alla propria identità.

Senza il sesso non so più chi sono. Non so come accedere ai modi di stare al mondo che mi procurano sollievo e gioia. Tutto quello che faccio, in un modo o nell’altro, è legato al sesso.

Eppure, in Atti di sottomissione, la disperazione che guida Megan Nolan non è mai vittimistica. L’autrice non si giustifica, non cerca palliativi. Lei non è una vittima, ma si identifica come sua stessa carnefice:

Dicono: “Dopotutto dovremmo avere desideri nostri, libere dagli uomini!”.

Certo che dovremmo. Riesco solo a immaginarlo; sarei felice di provare qualcosa di simile. Nella mia vita, sarei felice di provare per una volta un desiderio che sono sicura sia solo mio e che non c’entri niente con gli uomini, con quello che è successo in passato con gli uomini, con quello che dicono di me e del mio corpo, con i pensieri che mi hanno ficcato in testa senza che nemmeno me ne accorgessi.

Ciò non vuol dire che ce l’abbia con gli uomini, o che mi senta esente da ogni colpa. Perché dovrei dire che i cattivi sono loro, e io la buona, e poi limitarmi a osservare cosa accade nel mondo? Il potere che gli uomini hanno avuto su di me, più che una ragione per odiarli, mi sembra un dato di fatto. E comunque, chi sono io per odiarli? Non avrei potuto rendermi immune da questo loro potere con un po’ di forza di volontà, educazione e orgoglio, in questo nuovo secolo? Non avrei potuto scegliere altri grandi amori invece degli uomini che ho scelto di amare?

Certo che avrei potuto, ma non l’ho fatto, e questa, la mia storia, è la storia di questo atto mancato.

La scelta è ciò che Megan Nolan rivendica. La scelta di autogestirsi, di autodistruggersi, di concedere un’autorità, ma anche di concedersi a discapito di sé. Di amare follemente, al limite della venerazione, di sbagliare l’oggetto dell’amore. La forza del potente esordio sta qui: nel cogliere lo sguardo maschile, nell’essere consapevoli di quanto esso influisca e plasmi il modello del femminile anche nella società odierna, ma nel reclamare la possibilità di desiderare quello stesso sguardo, la sua permeabilità violenta.

A farmi arrabbiare di più non è stato l’atto del sesso non voluto, ma il tedioso promemoria che gli uomini spesso possono fare quello che vogliono e alcuni di loro lo fanno.

Ci ricorda l’autrice di Atti di sottomissione, avvisandoci, però, della necessità di comprendere la propria debolezza, di accettarla e coltivarla. E odiarla, perché no.

Odio la mia debolezza, ciò di cui mi sono privata e che ho dato a lui, ma la amo anche, la amo ancora. Non ho rimpianti. Amo la ragazza che ha fatto queste cose. La amo perché mi dispiace per lei, e la capisco.

Scrive, a un passo dal finale. La catarsi di una relazione in cui si è dato tutto e di quel tutto è rimasto solo cenere è tutta qui: nel riconoscimento dell’amore per sé stessi, per la propria debolezza, per il proprio coraggio non di sottrarsi, ma di essersi donate. E rivendicare quell’atto, la singolarità della propria esperienza che non vuole essere gettata nel calderone di esperienze simili, per cui:

Scendere a patti col proprio vittimismo fa solo parte dell’essere donna. Usarlo o negarlo, odiarlo o amarlo, e tutte queste cose insieme. Essere una vittima è noioso per chiunque sia coinvolto. Per me è noioso presentarmi attraverso esperienze che vengono costantemente strumentalizzate come espedienti narrativi nelle telenovelas e sui giornali scandalistici. È per questo che mi vergogno così tanto di parlare di alcuni eventi, o di trovarli interessanti? Fa parte dell’orrore dell’essere genericamente feriti. Le tue esperienze sono così comuni che diventa impossibile parlarne in modo interessante. Se voglio raccontare qualcosa della mia sofferenza, sento la mia voce entrare nel canone delle Donne Che Sono State Ferite, diventando sconosciuta, non-mia”.

La decisione di tener stretto il proprio vissuto, i propri atti mancati, disperati, di sottomissione, e scegliere come raccontarlo è ciò che trae fuori Megan Nolan dal circuito della vittima: lei non subisce, lei sopravvive al mondo, anche quando questo lo rigetta. Rifiuta la semplicità del “disegnare una riga al centro della casa, e mettere lo stupro da una parte e il sesso dall’altra” e rivendica le proprie azioni, il proprio diritto allo sbaglio, in un disperato inno alla libertà e alla propria corporeità.

Ho pensato a quanto, da sempre, la mia vita e la mia testa fossero piene di queste cose, della disperazione di essere amata da un uomo, dell’idea che l’adorazione di un uomo o il bisogno di scoparmi avrebbero zittito per sempre le parti brutte di me.

Pensavo che l’amore di un uomo mi avrebbe riempito così tanto che non avrei più avuto bisogno di bere, mangiare, tagliarmi o fare di nuovo qualsiasi altra cosa al mio corpo. Pensavo che se ne sarebbe fatto carico al posto mio.

Ma adesso ero qui, proprio qui dentro, senza nessuno a dirmi cosa sarebbe successo dopo.

A cosa avrei pensato adesso che non pensavo all’amore o al sesso? Questo sarebbe stato il prossimo passo, cercare di capire con cosa riempire tutto quello spazio.

Giulia Manzi