1945 e altre storie: l’eredità della memoria
Due ebrei ortodossi rientrano nel paese d’origine alla fine della Seconda Guerra Mondiale, portando con sé un carico misterioso. Una ragazza madre alleva un figlio illegittimo. Un aspirante rabbino esplora la propria identità di genere. Due sopravvissuti all’Olocausto rintracciano e ricattano un ex gerarca. Otto racconti, otto esplorazioni del secondo dopoguerra, fino ai giorni nostri, collegati dal filo rosso dell’ebraismo, degli insoluti del conflitto e dell’occupazione russa: questo è 1945 e altre storie, nato dalla penna di Gábor T. Szántó, la nuova pubblicazione di Edizioni Anfora.
Attraverso un percorso nel tempo, l’autore affronta con spietata lucidità il problema della memoria, non limitandolo alla contingenza storica dell’Olocausto. Si fa, invece, portavoce dei sopravvissuti, ma anche degli eredi di questi, i quali si ritrovano a sopportare il peso di memorie non proprie, di esperienze traumatiche trasmesse col sangue, senza avere i mezzi effettivi per affrontarle.
Resta, così, una sorta di permanenza della memoria, un’eredità pesante, a tratti claustrofobica, a tratti incendiaria. Una memoria costellata di paura che deve fare i conti con le avversioni intrinseche nelle micro-realtà che descrive Szántó: quelle di piccoli villaggi ungheresi, tra collaborazionisti passivi, antisemitismo interiorizzato e timore per tutto ciò che è diverso, che torna per sconvolgere il precario equilibrio su cui si fondano le comunità.
La perversione dell’equilibrio è proprio ciò che stimola la memoria, la prima costrizione a ricordare ciò che vuole essere sepolto. Ed è da qui che si trae un altro tema importantissimo in 1945 e altre storie: la restituzione.
1945 e altre storie: restituire e restituirsi al mondo
“Dobbiamo restituire ogni cosa”
Afferma un personaggio nel film del 2017 (disponibile su Prime Video e Netflix) tratto dal racconto omonimo che dà titolo alla raccolta e al lungometraggio. Restituire, non solo per attenuare il senso di colpa, ma per sollecitare la memoria stessa. Restituire, soprattutto, a sé quella necessità di scrutarsi dentro e scivolare nella propria frattura interiore. Restituire per riconoscersi nell’altro, perché è solo nel confronto con l’estraneo che “si rimette il trauma all’opera” (V. Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, Milano, 1999, pg. 77), creando una narrazione in cui si ristabiliscono quei nessi casuali tra elementi apparentemente sconnessi e si dispongono “sullo sfondo di ciò che si colloca prima, dopo o altrove” (P. Jedlowski, Il racconto come dimora, Bollati Borlinghieri, pg. 20).
1945 e altre storie sviscera il senso del trauma generato dall’incontro/scontro. Porta alla luce l’alienazione e lo smarrimento che si prova di fronte al perturbante, all’alieno. E lo fa con una narrazione diretta, viscerale e disturbante. Gábor T. Szántó lascia parlare i personaggi, permette loro di mostrare quel lato squisitamente umano che colloca ogni figura in un limbo grigio.
Ha paura del notaio, ha paura degli abitanti del villaggio ma soprattutto anche lui ha paura di questi, qui dietro alle spalle. In fin dei conti devono avere un gran potere se osano tornare a casa tutti soli, qui, da dove sono stati costretti ad allontanarsi così vergognosamente, e in un batter d’occhio si riprendono ciò che era loro. Mihály Suba stesso lavora una terra che fino a qualche anno prima era di proprietà d’altri. Come potrebbe non preoccuparsi che questi ritornano! Un anno fa riteneva esagerato che li buttassero fuori dalle loro case e che li portassero chissà dove, anche se riteneva giusto che, a giovare di quei beni, fossero i suoi simili. Non è giusto che loro abbiano tutto e chi è messo al giogo da generazioni su questa terra viva in miseria.
Non c’è crudeltà, negli abitanti che accettano la deportazione. Ci sono paura e un senso egoistico di giustizia, come se nella disgrazia dell’altro – del diverso – si trovasse consolazione alle proprie miserie. Dall’altra parte, ecco sorgere un senso di riscatto, di dignità della memoria di fronte a chi vuole, invece, occultarla. Ma essa non è cancellabile. L’essere umano è fatto di memorie, di ricordi. Esse sono l’humus su cui ognuno coltiva il proprio habitus, dove la stessa propria essenza germina e cresce. Un terreno fertile che dev’essere costantemente rivangato attraverso le narrazioni personali che entrano a confronto e completano la narrazione collettiva, in quelle che Jedlowski definisce: comunità narrative (ovvero un nucleo di individui con narrazioni in comune che continuano a circolare di generazione in generazione).
Quest’ereditarietà della memoria all’interno di una comunità narrativa è cruciale all’interno del testo di Szántó, che denuncia, nella messa a confronto di micro-realtà, l’oscurantismo e il tentativo, da parte di un estremismo di regime, di sviluppare una comunità basata sulla cancellazione del diverso, invece che sul recupero della memoria comune.
La delicatezza e la profondità di Trans, l’unico ad avere un finale positivo, o Mirko e Marion; il disturbante svolgimento di Affetto, o ancora l’incapacità di affrontare il proprio traumatico passato in Albero di Natale… sono elementi che si intrecciano in un’unica, grande, narrazione: quella dell’uomo e delle sue memorie. Del rimpianto, del rimorso, della vita che prosegue nonostante tutto, dei ricordi che non possono essere mai seppelliti, perché, prima di tutto, fanno parte di noi, della nostra storia personale e della Storia stessa, con cui si miscela nella più grande comunità narrativa esistente: quella dell’umanità.
Giulia Manzi
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